L’estate era stata calda. Da tre mesi le radio trasmettevano a nastro Sgt Pepper’s, il rock dei Beatles che diventava psichedelico rimbalzando sulle chitarre distorte e gli ottoni della banda dei Cuori Solitari. C’era aria di rivoluzione in tutto il mondo e anche il tennis, alla fine dell’agosto del 1967, si preparava alla battaglia che lo avrebbe cambiato per sempre. Naturalmente a Wimbledon, ma un mese dopo la fine dei Championships.
«Il primo giorno le tribune erano affollate per tre quarti», ricorda Rod Laver, il più grande tennista della storia. «il Presidente dell’All England Club ci disse che se le avessimo riempite per tutti i tre giorni l’anno seguente ci avrebbe invitato di nuovo. Ci guardammo negli occhi, noi otto, e capimmo che il futuro era anche nelle nostre mani». Per decenni, dai tempi della Lenglen e di Tilden, il tennis aveva vissuto una dolorosa apartheid. Da una parte i dilettanti, spesso finti, foraggiati con mille sotterfugi dall’ipocrisia dell’Itf, la federazione internazionale. Dall’altra gli ‘sporchi’ professionisti, quelli che giocavano per denaro. Laver, da dilettante, nel 1962 aveva chiuso il suo primo Grand Slam, vincendo in un solo anno i Campioni d’Australia, il Roland Garros, Wimbledon e i Campionati Usa; poi era passato professionista, condannandosi all’esilio dal Tempio. «Quando lo feci pensai che non avrei più rivisto il Centre Court, perché i pro erano esclusi dai grandi tornei. Ritrovarmi a giocarci sopra fu meraviglioso». Già dall’inizio degli anni ’60 in molti avrebbero voluto aprire a quelli che Giorgio De Stefani, l’italiano allora presidente dell’Itf, considerava mercenari. C’era stata anche una votazione, per 5 voti la barriera non era caduta. Il tennis però attraversava un momento di stanca. Wimbledon 1967 era stato vinto da un John Newcombe 23 enne in finale sul Carneade tedesco Bungert e fu proprio durante il torneo, il primo trasmesso a colori dalla BBC, che il futuro papà dell’Atp Jack Kramer e il Presidente dell’All England Club Herman David per dare una scossa decisero di organizzare dal 25 al 28 agosto un torneo a inviti con 8 fra i più forti professionisti dell’epoca – oltre a Laver, Rosewall, Gonzalez, Hoad, Gimeno, Stolle, Ralston e Buchholz –, che fu battezzato Wimbledon Pro. Se avesse avuto successo, dal 1968 Wimbledon, quello vero, sarebbe stato ‘open’, aperto a dilettanti e professionisti. La fine dell’apartheid.
«La vita fra i pro non era facile», sorride Rod il razzo. «Ricordo che persi 14 o 15 volte di fila contro Hoad prima di capire cosa dovevo fare. Si giocava di notte, bisognava spostarsi da una città all’altra in macchina, guidando per centinaia di chilometri. E davanti avevi sempre gente come Hoad, Rosewall o Gonzalez. I migliori. Era come giocare ogni due giorni una finale di Wimbledon. E lo facevi per guadagnarti da vivere. Magari non eri sempre al meglio, ma dovevi impegnarti ogni giorno al massimo». Anche i professionisti avevano i loro ‘major’: gli Us Pro Tennis Championships, Wembley Pro, i Campionati professionistici di Francia; ma si giocavano a volte sulla terra, a volte sul parquet indoor, e oggi non fanno più statistica. Così il bando dei mercenari ha mutilato in maniera irreversibile l’albo d’oro del tennis. Laver non ha potuto giocare gli Slam per cinque anni, Rosewall di Slam ne ha saltati ben 45. Senza l’apartheid, oggi leggeremmo una storia diversa. «Ma è andata così, e io sono orgoglioso sia della mia carriera da dilettante sia di quella da professionista. La finale del Wimbledon Pro me la ricordo: Rosewall aveva male al collo, prima di entrare in campo era un po’ nervoso. Vinsi in tre set, giocando discretamente». Il torneo, sponsorizzato dalla BBC, andò benissimo. Gli spettatori furono 30.000, il montepremi per il singolare di 35 mila dollari, il più alto della storia. La Federazione inglese fu la prima a sdoganare i reietti, a marzo anche l’Itf dovette accettare la realtà. Nel primo torneo Open, a Bournemouth nel 1968, il dilettante Mark Cox riuscì a battere al secondo turno un gigante come Pancho Gonazalez, ma il torneo lo vinse Rosewall, che poi, mentre Parigi era infiammata dal maggio della contestazione studentesca, trionfò al Roland Garros. A Wimbledon toccò a Laver, che l’anno dopo completò un secondo Slam, l’unico fino ad ora del tennis Open. «I dilettanti erano convinti di essere più forti», se la ride oggi Rod, «perchè i pro giocavano sempre fra di loro e si allenavano poco. Per loro fu uno shock scoprire che contro di noi riuscivano a fare appena pochi game». L’estate era quasi finita, iniziava una nuova stagione. Il sergente Laver e la sua Banda di Campioni Solitari si erano ripresi il tennis.
Rispondi