Quando gli All Blacks diventarono All Blacks

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«E’ così che giocano i neozelandesi, come se dalla vittoria in campo dipendesse ogni loro speranza di felicità eterna». Prima del 1905 in Inghilterra e in Europa non si era mai vista una squadra simile. The Originals, i primi All Blacks. Erano in ventisette: fabbri, contadini, calzolai, impiegati di banca, minatori. Un mastro d’ascia, un ex fantino. Il capitano, David Gallaher, torace ampio, baffoni a manubrio, era nato nel Donegal, in Irlanda. Aveva combattuto nella guerra anglo-boera, sarebbe morto in una trincea a Paschendaele dodici anni dopo. Trascorsero quarantadue giorni ad allenarsi sul ponte della RMS Rimutaka, che già al quinto imbarcava acqua, dalla grandine di Auckland alle nebbie di Plymouth attraverso il Pacifico e l’Atlantico. Appena il tempo di sciogliersi i muscoli dall’umido delle cabine e poi trentacinque partite e trentaquattro vittorie nel Tour delle Isole Britanniche – come gli anglosassoni continuano a chiamarlo – che cambiò faccia al rugby. L’unica sconfitta a Cardiff, contro il Galles, 3-0 per i dragoni e la meta del pareggio annullata a Bobby Deans, il contadino numero 12 dei kiwi che continuò a giurarlo fin sul letto di morte: «credetemi, io l’avevo segnata». Il resto: mischia di granito, passaggi al millimetro. I tre-quarti belli e terribili come un uragano, gli avanti insieme gazzelle e arieti, «caparbi come l’acqua o la luce che rimbalza in ogni direzione», scrive Lloyd Jones nel suo magnifico racconto (Il Libro della Gloria, Einaudi). Gallaher giocava all’ala, ma si piazzava appena fuori dalla mischia, flirtando con il fuorigioco proprio come oggi fa il suo discendente Richie McCaw, per scippare palla al mediano avversario. Diceva: «ogni avanti all’occasione deve saper giocare come un tre-quarti». Tanto che secondo una falsa leggenda fu l’equivoco fra all backs (tutti tre-quarti) e all blacks (tutti neri) a battezzarli. Il loro era un rugby totale, inedito. Gli inglesi, dal Devon al Northamptonshire, si spellavano increduli le mani, buttavano i cappelli in aria. La prima meta la incassarono in un pomeriggio di piombo, il 7 ottobre di 110 anni a Durham, 18 chilometri a sud di Newcastle dove quest’anno la Nuova Zelanda ha affrontato Tonga nella ottava edizione della Coppa del Mondo. Si chiamavano All Blacks da 22 giorni. A Exeter il 16 settembre, nella prima partita del tour, avevano travolto una selezione del Devon per 55-4. Qualche tipografo, incredulo, rovesciò persino il risultato, l’Express and Echo scrisse: «Gli All Blacks, come sono definiti in ragione della loro divisa nera ed uniforme, erano guidati dal capitano Gallaher e i loro fisici hanno impressionato gli spettatori». Tornarono in albergo accompagnati da una banda di ottoni, acclamati dalla folla. Per il giornale di Newcastle, il Northern Eco, erano stregoni. «Nelle ultime settimane abbiano sentito parlare molto dei metodi di allenamento di questi neozelandesi. Dal sud ci arrivano voci di tattiche letali, così imbattibili e incomprensibili che hanno quasi il sapore dell’occulto». L’ultimo degli Originals, Billy Wallace, è morto nel 1972 a Wellington. Se gli aveste chiesto cos’è il rugby, avrebbe risposto come un All Black di oggi: «il rugby è quello che siamo».

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