Ha le treccine come Bob Marley, il suo idolo è Marat Safin. La sua pelle è nera, la sua superficie preferita l’erba, la sua vittima Rafael Nadal. Si chiama Dustin Brown, è mezzo tedesco e mezzo giamaicano e ieri per la seconda volta in due anni sul verde ha fatto fuori il Grande Decaduto. Era già capitato l’anno scorso ad Halle, stavolta però il risultato smuove le radici del torneo più importante del mondo, anche perché è arrivato sì al 2° turno, ma sul Centre Court, la sindone verde su cui Rafa ha giocato cinque finali e vinto (nel 2008 e 2010) due dei suoi 14 Slam. Il Nadal di quest’anno, intendiamoci, è lontano parente del Cannibale che fu. Ha vinto appena due tornei minori (Buenos Aires e Stoccarda) e negli Slam rimediato solo flop. Nei Championships negli ultimi tre anni era al massimo agli ottavi, sui prati cercava un riscatto dopo il tonfo del Roland Garros invece ha continuato a rotolare, lento negli spostamenti, molto falloso. Un po’ triste, anche, se messo a confronto con il tennis-reggae di Brown, il n.102 del mondo partito dalle qualificazioni che lo ha stordito con il servizio, ferito con il dritto, beffato con le volée, rintontito di smorzate. «Dustin no gioca mai un colpo uguale all’altro, non è facile come avversario», ha esalato l’ex-Nino, ammenntendo anche di non sapere «se tornerò mai quello del 2008-2010». Se Tsonga arriverà in semifinale – difficile – Nadal potrebbe addirittura uscire dai top-10. «Non avevo mai giocato sul Centre Court, e per Nadal ho un immenso rispetto», dice Dustin esibendo il suo eterno sorriso. «Averlo già battuto ad Halle mi ha dato fiducia, anche se all’inizio non sapevo neppure dove giocare le volée. Mi ero detto: se perdo, pazienza, stringerò la mano a Rafa e gli dirò bravo. Invece sono stato bravo io a non mollare anche quando mi ha annullato i primi due match point, ho pensato solo a giocare il mio miglior tennis».
Brown ha 30 anni, è nato a Celle, in Bassa Sassonia, non lontano da Hannover. Mamma Inge è tedesca, papà Leroy è giamaicano. Ha iniziato a giocare a tennis a cinque anni, a dodici si è trasferito a Montego Bay, a casa di papà. «In Germania c’era qualche problema di razzismo, e ancora c’è, bisogna farci il callo. Da junior non ero male, anche se quando qualcosa andava male perdevo la testa e mi facevo squalificare, ma nel 1976 i miei decisero di trasferirsi in Giamaica per una questione di soldi: in Germania costava tutto tanto.Ero abituato ai giochini elettronici, alla tv via cavo, mi trovai in una realtà diversa, dove capii che le priorità erano altre». Dopo qualche anno, però, esasperato dalla mancanza di fondi e infrastrutture della federazione locale, ha deciso di tornare in Germania e prendere il passaporto tedesco. Fra il 2004 e il 2007, agli inizi della carriera da pro, ha girato tornei e torneini per tutta Europa a bordo di un camper Volkswagen («di quelli grandi, con tre letti e bagni seprati») targato ‘CE DI 100′ che gli aveva comprato mammà per risparmiare sulle spese. Ce sta per Celle, DI per Dustin, 100 era l’obiettivo minimo da raggiungere in classifica, già ampiamente superato nel 2012 quando a forza di vittorie nei Challenger (anche a Bergamo) si era parcheggiato a quota 43. «La mia metà tedesca mi ha regalato puntualità e organizzazione – dice – quella giamaicana la voglia di godermi la vita. Il tennis è allegria, come andare in spiaggia con gli amici, giocare alla playstation, ascoltare l’hip hop». Sul fianco ha un tatuaggio con l’immagine di papà Leroy («l’ho presa da una fotografia che avevo in casa da bambino, è opera di un famoso artista del tattoo di Colonia») nel polso una frustata di servizio e tanta creatività, in testa un cesto di treccine rasta. «Il mio soprannome è Dreddy (da dread-lock), ma se dicono che sono il Bob Marley del tennis non mi offendo, ci mancherebbe. Io sono fatto così, non sono mai cambiato. Mi fa piacere che la gente lo apprezzi, ma d’altra parte se ascoltassi sempre quello che dice la gente, sicuramente non avrei questo smetto e mi sarei tagliato i capelli». Dustin è uno che ama scherzare. «Dispensa minchiate», sopstiene Andreas Seppi, che con lui chiacchiera in tedesco. Non è ricchissimo – da ieri lo è un po’ di più – tanto che gira con un coach part time (Kim Wittemberg, il suo primo maestro, un americano che ha una tennis Academy ad Hannover). Anche i suoi genitori giocavano a tennis, ma non hanno mai avuto i mezzi per tentare la strada del professionismo. E ancora oggi, per ottimizzare le spese e fare qualche soldino extra gira con una sua macchina per incordare e a volte incorda le racchette dei colleghi.
«Il camper non ce l’ho più – racconta – Mi è servito per vincere tanto a livello future e challenger, non c’entrava tanto con l’immagine del tennista professionista, è vero, ma quello è stato un periodo in cui ho imparato molto. Ci ho messo un po’ per imparare che posso vincere match come quelli contro Nadal. Al challenger di Roma ho giocato un quarto di finale che mi avrebbe dato l’ingresso diretto in tabellone a Wimbledon, e l’ho perso malissimo in nemmeno un’ora. Devo accettare che nel mio tennis ci siano questi scarti, sia quando va bene sia quando va male». Da tempo è oggetto di un piccolo culto underground da parte di chi non ama il tennis omogeneizzato e noioso dei “baseliners” di oggi, ma non ha mai vinto un torneo in singolare (due in doppio), insomma gli mancava il grande acuto. Al terzo turno gli tocca il non impossibile serbo Victor Troicki, una grande occasione di arrivare nei quarti, comunque se la giocherà affronterà in allegria. Se c’è uno streaming in paradiso, Arthur Ashe, il primo (e unico) nero a vincere Wimbledon giusto 40 anni fa, non si perderà il match.
Caro Stefano, va bene Dustin Brown ma da te mi sarei aspettato qualcosa di più “ricercato” tipo…
“La strana parabola del “predestinato” ragazzino marchigiano dopo la vittoria al torneo juniores 2013: Chung a Wimbledon, Quinzi a casa…” (http://andrea-writing.blogspot.it/2015/06/tennis-lo-strano-destino-del.html).
Quando il diciannovenne mancino Gianluigi Quinzi vinse a Wimbledon juniores nel 2013, i giornali e i grandi esperti della racchetta hanno sprecato fiumi di inchiostro per elogiare il ragazzo, ergendolo a “predestinato” verso una fulgida carriera. Oggi, invece, scorgendo il tabellone di Wimbledon, ci si accorge che il finalista di quel Wimbledon juniores 2013, il coreano Chung, è entrato direttamente in tabellone principale (essendo già numero 78 delle classifiche mondiali) mentre il “predestinato” Quinzi perde al challenger di Milano con Cipolla, peraltro proveniente dalle qualificazioni. Ed è numero 422 del mondo… Francamente non si sa più che pensare. Se non che i talenti veri (Panatta e Pietrangeli su tutti) sono altra cosa. E che Becker vinse Wimbledon dei grandi (non dei piccoli) a 17 anni…