L’immagine è quella: il servizio slice di Ashe che taglia il Centre Court, Connors che ruzzola fuori dal campo e in qualche modo riesce a rispondere. Ma Arthur è già a rete, veloce come una bruma nera, alto e regale come un principe masai. Battezza una facile volée di diritto, poi alza il pugno verso le tribune. E’ il 5 luglio del 1975, per la prima volta nella storia un maschio nero ha vinto Wimbledon. Ashe in quel momento ha 32 anni, e quella finale avrebbe dovuto perderla. Jimbo è il campione uscente, il n.1 del mondo. E un fuoriclasse di antipatia. L’uomo che ha portato in tribunale l’Atp, l’associazione dei tennisti nata pochi anni prima di cui Ashe è il presidente, e che ha querelato Ashe stesso, per un’accusa di scarso patriottismo. «Ogni volta che lo incontro negli spogliatoi – giura Ashe – devo trattenermi dal tirargli un pugno». Il cazzotto arrivò in campo, in un indimenticabile pomeriggio di 40 anni fa.
La storia era iniziata negli anni ’50, su un campo del profondo sud americano a Richmond, in Virginia. «Nei tornei giovanili ci si arbitra da soli, tu chiama ogni palla fuori di 10 centimetri a favore del tuo avversario: eviterai che ti diano del negro ladro. Perderai qualche partita, ma se sei davvero forte alla fine riuscirai a dimostrarlo». Arthur Ashe era un ragazzino testardo ma ascoltò quello che gli diceva Walter Johnson, il vecchio coach di Althea Gibson, la prima nera in assoluto capace di trionfare ai Championships. La lezione servì, i risultati arrivarono in fretta. L’università in California, la Coppa Davis, le copertine di Sport Illustrated, il primo Slam vinto a Forest Hills nel ’68. Poi l’impegno civile, le lotte contro l’apartheid, l’amicizia con Mandela prima della morte per Aids, dopo una trasfusione, nel 1988. «Ma la vittoria a Wimbledon – spiega Peter Bodo, giornalista americano che alla rivalità Connors-Ashe ha dedicato un libro – fu quella che gli regalo l’autorità definitiva».
Una finale vinta prima di scendere in campo. «Arthur era uno abituato a spazzare via gli avversari – racconta John Barrett, storico del tennis e membro dell’All England Club – ma sapeva che con Connors non poteva. Così stravolse il suo stile: palle leggere, angolate, corte, per togliere peso ai colpi mancini dell’avversario. E Connors uscì di testa. Ai cambi di campo estraeva dai calzini i foglietti che gli aveva scritto mamma Gloria e li leggeva nervosamente. Ashe sedeva immobile, gli occhi chiusi. La personificazione della calma. Uno spettatore gridò: “Datti da fare, Connors!”, Jimmy gli rispose. “Ci sto provando, dannazione!”. Lo stadio venne giù. Ma vinse Ashe, e per Wimbledon fu uno shock. Uno shock meraviglioso». 40 anni dopo, cosa è rimasto di quella vittoria? Sorelle Williams (e Malivai Washington) a parte, il tennis afro-americano non ha prodotto molto. «Il ricordo di Arthur, un uomo straordinario. Fosse sopravvissuto sarebbe diventato un politico, avrebbe anticipato Obama», sostiene Barrett. «Ashe ha fatto dire agli afro-americani: ecco, voglio che mio figli assomigli a lui», sottolinea Bodo. «Ha avvicinato i neri al tennis, anche se per molti di loro, diciamolo, resta ancora oggi uno sport estraneo. Ha seminato. In futuro avremo altri campioni neri come lui. Attenzione però a santificarlo. E’ facile raccontare quella finale come la lotta fra il bianco, ignorante e bullo, e il nero, intellettuale e sofisticato. Erano due tennisti, amavano entrambi le conigliette di Playboy. E sono convinto che molte mattine Ashe avrebbe voluto svegliarsi nei panni di Connors: per poter fare quel che voleva senza che nessuno si scandalizzasse».
Rispondi