Se la Nba invidia il calcio

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Sorpresa: la Nba si guarda allo specchio e non si piace. Meglio: è imbarazzata da se stessa. Per la precisione dall’annata nera di due o tre nobili decadute – i Philadelphia 76ers, i Los Angeles Lakers, i New York Knicks – che, persa per persa, stanno facendo un pensierino a buttare a schifio la regular season per guadagnarsi le prime scelte nei ‘draft’ dell’anno prossimo (da La Stampa). Così qualcuno – Victor Mather, editorialista del New York Times – ha tirato fuori una (pazza) idea: copiare il calcio e introdurre il meccanismo promozione/retrocessione per evitare lo spettacolo avvilente di una squadra che perde apposta, sicura di non rimetterci troppo e anzi di ritrovarsi in posizione dominante per il mercato dell’anno seguente. Un meccanismo inventato per tutelare i deboli, che finisce per favorire i cinici. «Spero che i Lakers perdano tutte le partite, e sono serio», ha ammesso qualche giorno fa Magic Johnson, proprio lui, oggi co-proprietario della sua ex-squadra, beccandosi anche una rampogna da Kobe Bryant («Magic parla da dirigente, noi giocatori pensiamo solo a vincere»). I Sixers, il team che fu di Doctor J, hanno perso le prime 17 partite, il bilancio dei Lakers è 6-16. Quello dei Knicks 5-20 e quando Bargnani & Co. sono riusciti a battere Philadelphia c’è chi ha titolato «tank goodness», giocando sulla pronuncia simile di «thank» (grazie) e «tank» (dargliela su). «Cosa rischiano questi team? – si chiede Mather – posti vuoti, qualche buu e articoli indignati. Pensate invece se dovessero battersi per decidere se l’anno prossimo giocheranno a San Antonio e Miami o piuttosto a Sioux Fall e Reno». Il ragionamento è semplice: gli Usa contano su 351 team universitari di prima divisione, di fatto squadre semi-professionistiche camuffate. Perché dunque non potrebbero sostenere 100 squadre realmente “pro”in grado di battersi per il privilegio di giocare nell’Nba, oggi bloccata a 30 franchigie? I miliardari negli States certo non mancano e piazze importanti ma escluse dal giro del grande basket come Pittsburgh o St.Louis potrebbero aspirare ad un posto in paradiso. Ci sarebbe meno spazio per match senza storia, si allungherebbero le carriere dei veterani e i giovani avrebbe più chance. Vista dall’Europa la questione, ne converrete, è paradossale: ma come, il modello “chiuso” delle grandi Leghe professionistiche Usa non era il punto di arrivo inevitabile di uno sport-business che ha bisogno di grandi pubblici, introiti assicurati e non tollera gli imprevisti? Pareva anche il destino prossimo venturo – e molto “capitalistico” – di un calcio sempre più legato al potere dei grandi club. La crisi di sistema provocata dal crollo dei Lakers svela semplicemente le logiche nascoste (e perverse) del sistema delle franchigie, nel quale l’urgenza economica strozza lo spirito sportivo. Secondo Mather però non c’è pericolo, la Nba non si convertirà mai alle retrocessioni, e proprio per colpa del calcio. «Il Leeds United nel 2001 giocava la semifinale di Champions League, poi è sprofondata fino alla terza divisione. Una implosione del genere terrorizzerebbe i proprietari americani». Fra perdere la faccia e perdere i soldi la scelta dei miliardari del basket è scontata. Alla faccia dello sport.

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