Pino Maddaloni non ci sta. Da atleta, sul tatami, era assuefatto all’oro. Da ct tecnico della nazionale maschile di judo, incarico che ricopre dal febbraio 2013, vuole tornare a mettersi al collo delle medaglie. Possibilmente preziose. Il judo in Italia ha un passato glorioso e un presente un po’ rugginoso, i giovani hanno talento ma faticano a illuminarsi nei grandi tornei, anche se i segnali ci sono, come l’oro vinto ieri da Antonio Esposito nei mondiali under 23. Per tornare a lucidare metalli anche fra i grandi il presidente della Fijilkam ha da poco ridisegnato ruoli e competenze, dimissionando il dt Raffael Toniolo e incaricando un tecnico giapponese con un cognome da romanziere, Kiyoshi Murakami, di scrivere il futuro dell’Italia.
«Nemmeno io, come il Presidente Falcone – spiega Maddaloni – posso essere contento dei quinti posti, visto il mio passato. Nel 2013 però siamo partiti da una squadra giovane, non tanto per età quanto per esperienza. In campo maschile non avevamo nessuno compreso nel ranking mondiale e il judo ora funziona come il tennis: se non hai classifica becchi subito le teste di serie. Adesso qualcuno è rientrato nei primi 100 del mondo, siamo pronti a raccogliere i risultati del nostro lavoro. Rispetto a nomi come Scapin, Giovinazzi, Verde, Quintavalle, Maddaloni i nostri non avevano la giusta consapevolezza della loro forza: arrivavano vicino al podio e si accontentavano. Ecco, è arrivato il momento di accontentarsi più. Di tirare fuori i denti».
Questione di poca “fame”?
«Un po’ sì. Anche da questo era derivata la scelta di dare a me la squadra maschile, io di fame di vittoria ne ho avuta sempre tanta. Però non è che se il contadino semina bene il giorno dopo subito spuntano i frutti: ci vuole tempo. Inoltre il nuovo regolamento voluto dai vertici mondiali, con il sistema della teste di serie, ha alzato molto il livello. Occorre tempo perché un ragazzo si inserisca. L’anno scorso però per la prima volta nella storia abbiamo vinto il mondiale junior, e siamo stati primi nel medagliere a livello europeo: questo ci fa capire che i più giovani si stanno formando con una nuova mentalità. I senior, cresciuti in un sistema diverso, faticano di più».
Il presidente federale ha voluto un giapponese, con una ventennale esperienza in Francia, come direttore tecnico: come lavorerete insieme?
«Sono sempre pronto ad ascoltare. Spero che Murakami ci possa trasmettere la sua esperienza. Le mie gambe sono sempre state rafforzate dall’umiltà: quella di saper ascoltare per migliorare ancora».
Il Coni ha tolto fondi al calcio per distribuirli ad altri sport: il judo di cosa ha bisogno?
«Di far girare di più i ragazzi per questi allenamenti a livello internazionale che ha voluto la federazione. Grazie ad atleti del passato che hanno vinto mondiali e olimpiadi, la cultura in Italia c’è. Ora però bisogna confrontarsi con i più forti del mondo».
A strutture come stiamo?
«Il presidente Pellicone ci ha lasciato un centro olimpico eccezionale. Non tutte le città però sono attrezzate allo stesso livello. In Italia ci appoggiamo sempre sugli sforzi dei singoli, delle famiglie che con la crisi oggi hanno meno tempo e soldi per accompagnare i ragazzi, mentre è lo Stato che deve avvicinare allo sport. Per i ragazzi lo sport deve essere un gioco e uno strumento per relazionarsi agli altri e al proprio corpo: il mio sogno è che possa sostituire i computer e i videogame. La scuola in passato si è scontrata con lo sport: ‘se vai in palestra studi di meno’ . Invece così il ragazzo impara anche ad organizzarsi la giornata e questo lo aiuterà poi nel mondo del lavoro».
Il judo è uno sport che attira ancora i giovani?
«Ce ne sono tanti che lo praticano e si divertono, ma non abbiamo visibilità, né sui giornali né in tv. Pensi che io a casa la tv neppure ce l’ho. Programmi non educativi, campioni che litigano: certe scene andrebbero vietate perché i ragazzi tendono a emulare. Invece in palestra c’è rispetto».
Effetto Balotelli?
«Non voglio citare altri sportivi, ma oggi molti genitori portano i figli a fare sport con l’idea che l’importante è guadagnare tanti soldi. Si guarda allo sport come uno show, ma non è così. L’Italia deve appoggiarsi alla formazione sportiva perché trasmette valori di cui abbiamo bisogno. Una volta bastava poco per divertirsi, oggi stiamo sempre con il cellulare in mano…».
La migliore promozione sono i successi: da ct azzurro cosa si sente di promettere?
«Medaglie, voglio medaglie. Se faccio il coach della nazionale è perché voglio vincere. Ai Giochi di Rio vorrei avvicinarmi al record delle quattro medaglie di Sydney. Tre andrebbero bene, poi una media di due ad ogni evento europeo e mondiale. Io spero sempre che ci sia dentro sempre un po’ di oro. Diciamo che mi ero abituato ‘male’ da atleta. Ma da coach non sono cambiato. Il mordente è sempre quello».
Partire da Scampia l’ha aiutata?
«A Scampia c’è ancora mio padre Gianni. Io dico che è un pazzo, ma un pazzo che ha dei sogni, come quello che ha portato 14 anni al mio oro a Sydney. “Andiamo là a vincere”, mi diceva. Oggi il suo sogno è aprire la Cittadella dello sport dove saranno dentro tutti i sogni dei ragazzi: basket, pallavolo, musica, teatro. A Scampia? Sì, a Scampia, 70 mila persone e un quartiere pieno di ‘buchi’: senza servizi, senza un cinema cinema, senza mezzi. Un progetto nato perdente. Mio padre sta investendo gli anni della sua vita in quel quartiere. Tutti lo chiamano “O’ Mae” ma per tanti anni non è stato ascoltato. Ora Malagò si è avvicinato, anche Matteo Renzi lo vuole incontrare. E se Renzi andrà a Scampia vedrà che i sogni si possono realizzare. Quello che ha fatto mio padre è esempio per tanti che si lamentano. I suoi ragazzi fanno sport ma aiutano anche chi è meno fortunato. Grandi risultati, non solo medaglie».
Rispondi