I rugbisti sono spesso guerrieri, le partite quasi sempre battaglie all’ultimo sangue: sui giornali. Nella vita le cose stanno diversamente, e se c’è qualcuno in grado di spiegarvelo in maniera convincente, be’, quello è Semesa Rokoduguni. (da Il Corriere dello Sport) Semesa ha 27 anni, è nato in un villaggio vicino a Suva, la capitale delle isole Fiji, ed è una delle ali che l’allenatore della nazionale inglese di rugby, Stuart Lancaster, ha convocato per i prossimi test-match di novembre. Ma è anche un caporal maggiore dei Royal Scots Dragoon Guards, arruolato a 19 anni nell’esercito di Sua Maestà britannica. E ha combattuto in Afghanistan. Combattuto, non giocato: durante una missione il suo compagno di pattuglia è saltato su una mina e ha perso entrambe le gambe. Compresa la differenza? «Gli altri rugbisti mi chiedono della guerra – ha raccontato Rokoduguni al Times – io rispondo che se sul campo sbagli una meta puoi sempre riprovarci la volta dopo. In Afghanistan non funziona così: se fai un errore qualcuno può rimetterci la pelle». Un po’ come sosteneva il mito del cricket australiano Keith Miller, pilota di caccia durante la Seconda Guerra Mondiale: «pressione non vuol dire giocare una partita. Pressione significa avere un Messerschmitt dietro al culo». Come potete immaginare, l’idea di affrontare gli All Blacks nel test match più atteso dell’autunno non spaventa più di tanto Rokoduguni.
Per lui in realtà il rugby è stato il piano B. Il piano A era diventare militare di carriera, come suo padre, pluridecorato e oggi in procinto di partire per il fronte siriano. «A scuola non mi tenevano neppure in panchina – ha spiegato Semesa – in tanti erano più bravi di me. Invece guardavo il petto di mio padre e mi dicevo: un giorno avrò anch’io una medaglia». Giocando nella squadra di rugby a sette dell’esercito, Semesa – un metro e 83 per 110 velocissimi chili – ha però impressionato gli allenatori, che l’hanno spostato rapidamente nella squadra del «quindici». Nel 2012 durante una amichevole fra i Newcastle Falcons e l’Esercito in Portogallo, i due coach dei Falcons lo hanno visto partire dalla panchina e segnare tre mete e gli hanno offerto una settimana di prova, durante la quale è sceso in campo con una falsa identità, Marakilevo Roko. Quando i due coach sono passati a Bath si sono ricordati di lui, e da lì è iniziata la irresistibile ascesa del caporale Rokoduguni. C’è però il rovescio della medaglia: «Nell’Esercito se sbagliavi un passaggio nessuno ci faceva caso. Nella Premiership può costarti una partita. Quando sono arrivato a Bath anche i ragazzini avevano più tecnica di me. Dicevo: “dammi la palla, ci penso io”. Ma non funzionava». Le Fiji nel frattempo si sono disinteressate a lui, così nel gennaio scorso è stato convocato dall’Inghilterra nei “Saxons”. Ora definirlo l’arma segreta di Lancaster suona stonato, ma rischia di essere vero. L’ultimo soldato in servizio effettivo che ha giocato per l’Inghilterra prima di lui è stato Tim Rodber, 44 caps negli anni ’90, l’avventura di Rokoduguni però richiama più alla mente i Gurkha, gli eroici nepalesi che con l’esercito britannico hanno combattuto un po’ ovunque (se il nome “Gunga Din” vi dice qualcosa). Oggi i Gurkha del rugby sono i polinesiani, naturalizzati e sparsi in tutte le nazionali del globo – Italia compresa – e ricercatissimi per le loro doti “guerriere”. Ma solo Semesa regge il paragone: «Servire l’Inghilterra nel rugby è un onore immenso – dice – quando sono tornato dall’Afghanistan avevo una visione diversa della vita. Mi sono detto che dovevo sfruttare ogni chance che avevo, perché avrebbe potuto essere l’ultima». Chissà se l’8 novembre a Twickenham, facendo l’haka, gli All Blacks penseranno a lui.
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