La Rossa per lui non mai stata un’amante, ma l’amore che conta. «Insieme alla famiglia – ha detto ieri con gli occhi insolitamente lucidi alla conferenza stampa di addio – la Ferrari è stata la cosa più importante della mia vita». La stella polare di una carriera passata a navigare fra successi e flop, poltrone comode e scomode, polemiche e delusioni, anche pesanti, schivate o rilanciate con il gesto leggero da ragazzino con cui da sempre si riavvia i capelli. E’ stata la passione che l’ha ancorato ad un destino, tra i tanti possibili (da Il Corriere dello Sport).
A Maranello, dopo il liceo classico dai gesuiti, la laurea in legge alla Sapienza di Roma, il master alla Columbia University e una carriera semiclandestina da pilota di rally – nome d’arte “Nerone”, per evitare le scomuniche della famiglia -, Luca di Montezemolo c’era arrivato dalla porta principale, a soli 26 anni, nel ’73. Chiamato dal Drake in persona, Enzo Ferrari, che alla radio l’aveva sentito perorare la causa di quello che oggi si chiama motorsport. Era agosto, faceva caldo, al telefono c’era il grande vecchio che gli diceva: «non vinciamo da troppo tempo, venga da noi». Fu la fine della carriera di avvocato, l’inizio di quella del manager più vincente della storia della Formula 1: 14 Mondiali, di cui 8 costruttori, 118 vittorie nei Gp. Prima assistente del Patriarca, poi team manager, alla Scuderia richiamò Clay Regazzoni e a rimorchio arrivò quel bel tipetto di Nicky Lauda, l’austriaco fatale. La Ferrari non vinceva un mondiale dal 1964, con Surtees. Lauda fece bang nel ’75, il secondo anno dell’era Montezemolo.
Le foto sono lì: i dentini feroci di Lauda, lo sguardo ossuto di Montezemolo, gli occhiali scuri del Drake. «Rivedo spesso con nostalgia un vecchio filmato che ogni tanto mostrano in tv – ha detto qualche anno fa – è il 7 settembre del 1975 a Monza, Lauda arrivando terzo vince matematicamente il campionato del mondo: la macchina era ancora alla Parabolica, io già in pista che festeggio. Insieme ai giorni in cui sono nati i miei figli, è stato il giorno più bello della mia vita». Il bis, dopo il rogo del Nurburgring, arriva nel 1977, il trentenne Montezemolo è pronto per altri incarichi. Per la Fiat, dove in anni turbolenti cura le relazioni pubbliche con il suo stile svelto, cordiale, solo apparentemente fatuo, una punta di spada nascosta dal velluto, passando dalle camicie di jeans del paddock al blazerino con l’immancabile pochette bianca. «Lo vedi quando entra in fabbrica – dice di lui Carlo Rossella – parla con l’ultimo operaio e lo chiama per nome e cognome. Ha una capacità di ricordare facce, nomi, ruoli che ho visto solo in un’altro: Berlusconi».
Con Torino c’è amore e distanza, con i fratelli Agnelli un affetto vero, saldo. Il primo incontro con Gianni era avvenuto al ristorante, e aveva dovuto pagare il ragazzo Luca, visto che Agnelli girava sempre senza soldi. Il padrone della Fiat si era fatto sedurre in fretta dai doni del pupillo. «Conosco Luca da quand’era un bambino», ha raccontato una volta Maria Sole Agnelli. «È un uomo intelligente, colto, preparato, sintetico. Poi, ha un’ultima grandissima qualità: è anche fortunato». Agnelli lo adotta, lo trasporta prima alla Juventus poi alla Carolco, ramo cinema, ma sono due passi falsi. L’esame di riparazione si chiama Ferrari, il suo vecchio team che dopo l’ultimo urrah con Jody Sheckter nel 1979 non ne ha più azzeccata una.
Montezemolo rientra da presidente a Maranello nel ’91, e lì matura il suo talento di accordatore di uomini, di organizzatore di sogni. Convoca Jean Todt, Ross Brawn, Rory Byrne, poi Michael Schumacher, odiatissimo dai tifosi per i suoi trionfi da ganassa alla Benetton. Un dream team come non se ne sono più visti nel Circus, cementato dal decisionismo cromato del capo. «Ho sempre avuto passione per il marketing e la comunicazione – dice – Giro, osservo, e quando capisco qualcosa, la applico». Il progetto all’inizio stenta ad ingranare – e l’Avvocato mugugna – ma quando arriva la macchina giusta è il trionfo perpetuo. «Con Schumacher abbiamo vissuto anni difficilissimi, come nel ’96», ha ricordato ieri. «Quante critiche che arrivarono da Torino. Poi Michael vinse a Monza e Spa e tutto cambiò. Ho ancora nelle orecchie la telefonata in lacrime dell’avvocato Agnelli quando Schumacher nel 2000 vinse il mondiale dopo 23 anni in Giappone».
La stagione dorata, dopo i cinque successi del mago di Kerpen, si prolunga fino al 2007, al Mondiale vinto con Raikkonen. «Sette titoli costruttori e sei piloti», sottolineò all’epoca. «Negli ultimi 10 anni la Ferrari ha vinto più che nei precedenti 50». Anni in cui Montezemolo – o Montezuma, o Libero e Bello, o Monteprezzemolo, come lo chiama chi non ama il suo attivismo mercuriale che sfiora l’ubiquità – ha rilanciato la Ferrari anche dal punto di vista commerciale, facendo lievitare fatturato (2,3 miliardi nel 2013) e presenza sui mercati (più di 60), trasformando la Rossa nel marchio più conosciuto al mondo. Alla fine ha pagato la scommessa su una Rossa dal management italiano, l’attaccamento ad un modello sportivo splendido ma un po’ passato di moda. Peccati d’amore, che col tempo gli amanti della Rossa sapranno perdonare.
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