«Dai, fino al bar: ci prendiamo una granita e torniamo indietro». Quando papà Salvatore diceva così mica lo sapeva che sarebbe stato un giro lungo, lunghissimo, quello di suo figlio Vincenzo. Da quel baretto di Messina accanto alla cartolibreria di famiglia, dove oggi sul menù accanto alla granita al caffè c’è anche l’arancino Nibali, colorato di rosa salmone – fino in fondo agli Champs Elysées, e davanti a tutti. Una storia da emigrante e da predestinato (da Il Corriere dello Sport).
A due anni Enzino, che è nato il 14 novembre del 1984, sgambettava già su un biciclettina giocattolo, i muscoletti guizzanti, gli occhi da pescetto già avvitati al mondo che sta in cima ad ogni pedalata. «Enzo è nato in bici – spiega mamma Giovanna – quando ha avuto in regalo la prima non ha più voluto scendere, tornava da scuola e scappava via». Per seguire papà che correva da dilettante e andava ad ammirare i professionisti su strade bianche di sole, fradice di storia, povere di gloria ciclistica che hanno svezzato al massimo gregari di lusso. Un sgambata sui Colli San Rizzi o sulle Madonie, sui Nebrodi e gli Iblei, sul Mongibello, magari una gita a Tindari, prima che a rispolverare quei luoghi arrivasse Camilleri. Voleva correre e frignava, lo Squalo dello stretto che ancora tutti chiamavano Pulce: perché era piccolo, saltava ovunque e faceva i capricci.
I suoi amichetti inseguivano il pallone, lui sragionava per le ruote. «Un giorno che s’era comportato male gli ho segato la bici a trapezi – ha raccontato Nibali senior a Gianni Mura – ma poi piangeva anche di notte». Ci volle l’intervento di mamma Nibali per rimettere insieme bici e futuro, Enzino capì la lezione, e a pensarci vengono in mente i capricci di un altro bambino magico, Roger Federer, uno che da cucciolo spaccava racchette davanti agli sguardi costernati di papà Robert e mamma Lynette, e poi erano ritorni silenziosissimi verso casa. Le prime trasferte invece ricordano quelle del ragazzino Fernando Alonso, da Oviedo all’Italia in macchina a fianco di papà, per imparare il mestiere. Nando quello dei motori, Enzino quello dei pedali, comunque tanti ingranaggi e meno sonno fra i riposi in autostrada, il polpettone preparato da mamma Giovanna e il progetto di diventare un giorno forte come il campione preferito da Nibali senior, Francesco Moser.
Prima gara a Barcellona Pozzo di Gotto, da Esordiente, su un vecchio telaio Pinarello ridipinto di rosso da papà Salvatore: Enzino a nove anni è clamorosamente secondo, dopo una fuga in faccia ad avversari tutti più grandi. Arriva in fretta anche la prima vittoria, con tre minuti rifilati al secondo e la scoperta che lo squalo-pulce ha talento, oltre che grinta. Che è un animale da gara. Enzino non vuole perdere, mai, a costo di sciuparsi, chi capisce di ciclismo gli legge già dentro il campione. Sono gli anni da apprendista fuoriclasse. Su e giù per la Sicilia perché la Sicilia ti slarga l’anima e te la occupa come sapeva nonno Vincenzo, emigrato in Australia negli anni ’30 e poi tornato a Messina per costruire da solo la casa grande di famiglia e metterci dentro tutti i sogni che si era portato appresso. Ma la Sicilia non basta se vuoi diventare uno forte da davvero, così a 16 anni Vincenzino fa come tanti della sua terra: emigra. Sacrifici di lusso, ma sacrifici. Grandi. Necessari. Prima a Mastromarco, una frazione di Lamporecchio, in Provincia di Pistoia, dove trova una seconda famiglia e una seconda patria, poi in Svizzera. Fra 2002 e 2003 arrivano i lampi da dilettante, nel 2005 il passaggio al professionismo, subito con la Fassa-Bortolo poi per sette stagioni con la Liquigas prima di passare nell’agosto del 2012 all’Astana. L’anno dell’esplosione è il 2008, con la vittoria al Giro del Trentino, quello della consacrazione il 2010, con la prima maglia rosa indossata per tre giorni al Giro e la vittoria alla Vuelta. Negli ultimi tre anni il caruso di Messina che da giovane scialava le gare per troppa generosità è diventato prima grande poi immenso, si è sposato con Rachele (che gli ha regalato Emma, splendidamente minuscola e infiocchettatissima ieri sul traguardo a Parigi), ha vinto il Giro e il Tour. Chi gli sta vicino dice che sotto lo sguardo calmo e la razionalità conquistata abiti ancora un Peter Pan made in Sicily, di sicuro sulla strada Vincenzo ha smesso di inseguire le ombre. Anche per merito di uno nato dall’altro capo della Penisola, il suo preparatore Paolo Slongo, da Treviso, l’uomo che dal 2006 gli sta a fianco limando i dettagli, l’alimentazione, la mente. «Vincenzo è nato per attaccare, sarebbe assurdo cambiarlo», dice. «Bisognava solo metterlo in grado di attaccare con più profitto». Per riuscirci Slongo è arrivato anche alle maniere forti, a sbattere in faccia alla Pulce trasformata in Squalo che se non voleva dargli retta fra loro era finita. Ha funzionato.
Sul podio del Tour ieri Nibali ha voluto andarci indossando la maglia di campione italiano e un velo di commozione, da emigrante la Sicilia gli rimane conficcata dentro. In Inghilterra, poi sui Vosgi, sulle Alpi e sui Pireni in fondo ha recitato alla Montalbano: gentile, corretto, ma spietato con chi sgarra. Usando scatti puliti e molta pazienza (specie verso i media francesi) ha mandato in galera un passato indigesto, fatto di doping e maledettismo. Dopo la gloria dei circuiti tornerà finalmente a Messina, a mangiarsi una pasta ‘ncaciata, a bersi una granita al caffè. Il bar è sempre lì. Dai, Squalo, che facciamo un altro giro.
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