Da un Sei Nazioni infernale al paradiso britannico di Sale, il club inglese che lo ha fortemente voluto – da una bocciatura di gruppo ad una promozione individuale. Alberto De Marchi, anni 27, da Jesolo, rappresenta un po’ l’Italia bifronte che da una parte esce con il morale sotto i tacchi dal Torneo, e dall’altra si consola con il lancio di alcuni giocatori, più o meno giovani – Sarto, Allan, Campagnaro, Esposito, Furno, De Marchi stesso – che dovranno rappresentare il nucleo della squadra in vista dei Mondiali del 2015 (da AllRugby).
«Sì non è stato decisamente un bel Sei Nazioni», ammette Alberto. «Ma un riscatto parziale lo dobbiamo proprio al fatto di aver visto in azione giovani interessanti e dalla consapevolezza che si sta costruendo un nuovo gruppo per il futuro. Un progetto per inseguire il quale c’era un prezzo da pagare, quello di non arrivare con l’esperienza giusta a quello che per molti è stato il primo Sei Nazioni da protagonisti».
Che cosa ha causato il tracollo azzurro, ancora più difficile da spiegare ripensando all’ottimo Sei Nazioni dell’anno scorso?
«Sicuramente ha influito la poca serenità, il brutto periodo che in molti abbiamo attraversato a Treviso, la squadra che fornisce gran parte dei giocatori alla nazionale. Poi ogni nazionale vive anni buoni e anni meno buoni. Il problema è che nell’anno ‘meno buono’ l’Inghilterra arriva seconda o terza rischiando di perdere in casa con l’Italia. Quando tocca a noi invece finisce che perdiamo anche all’ultimo secondo con la Scozia, e in casa rimediamo bastonate in casa come è capitato con l’Inghilterra. Io resto convinto che si sia trattato di un’annata storta, e che vedremo presto cambiamenti e miglioramenti. Non c’è comunque una causa sola che spiega ciò che avvenuto, è stato un insieme di fattori a causare questa debacle».
Abbiamo sofferto anche in mischia e in touche, due nostri tradizionali punti forti: quanto ha pesato?
«In touche assolutamente non siamo stati all’altezza, è vero. E’ mancata la precisione, io stesso ne ho sbagliata una contro la Scozia, e si sono visti i risultati. Se perdi le touche comprometti il possesso e quindi a non riesci a creare gioco. In mischia invece le prime tre partite sono andate bene. In Irlanda ci è maancato subito Castrogiovanni e non è mai facile quando devi fare a meno del pilone destro, di un giocatore importante come Castro per gli schemi sui quali magari hai impostato la preparazione della partita. Ma non credo che il problema sia stata la mischia».
Il Presidente Gavazzi dopo l’ultima partita ha promosso, con riserve, l’inesperienza dei giovani, e puntato il dito sulla “presunzione” di qualche veterano: la squadra ha un po’ risentito di una frattura generazionale?
«Io sono entrato nel gruppo quando l’allenatore era ancora Nick Mallett, ho avuto modo di giocare con gente come Perugini e Ongaro, e posso assicurare che queste sconfitte ci stanno unendo ancora di più. Certo, non ci può essere ancora la coesione assoluta che esisteva fra chi ha giocato insieme per dieci anni, facendo la storia del rugby italiano, ma l’impressione che ho avuto io non è di una squadra divisa in due fazioni, anzi. Si sta creando un gruppo importante che potrà togliersi grandi soddisfazioni. Non è facile trovare fin da subito i risultati, ma ho visto l’inizio di un qualcosa. Forse, questa è la mia riflessione, il cambiamento si sarebbe potuto far partire in anticipo : abbiamo l’esempio dell’Inghilterra, che un paio di anni fa ha iniziato a cambiare molto e che per un periodo non è stata l’Inghilterra che vediamo ora. Ora quel dazio lo stiamo pagando noi. Ma arriveremo ai Mondiali con molta più scelta, specie fra i tre-quarti».
Siamo da quindici anni ormai nel Sei Nazioni: gli altri restano così distanti come sembra?
«Sicuramente siamo distanti dai più forti. C’è poco da nascondersi, è un fatto di cultura, del modo diverso che hanno loro di vivere il rugby. Io ho avuto modo di conoscere la realtà di Sale, dove c’è una struttura impressionante a disposizione dei giocatori. Da noi purtroppo c’è un abisso fra le due franchigie di Celtic League e il resto, quindi è difficile anche solo paragonare il nostro movimento a quello francese o inglese. Là c’è anche più competizione. Del resto i ragazzini in Francia o in Inghilterra nascono e vogliono giocare a rugby; noi siamo troppo concentrati su un altro sport».
Un gap incolmabile?
«Noi camminiamo, loro corrono. Non si cambia un movimento solo dall’alto, dalla nazionale; deve cambiare l’approccio a livello di base, giovanile. Alcune cose si stanno facendo, i corsi per allenatori ad esempio, e chi è andato a giocare all’estero ne ha riportato esperienze importanti, vedi l’esempio di Fabio Ongaro team manager delle Zebre. Ma come tutto in Italia, anche in questo campo le cose vanno lentamente».
Che cosa ha spinto il giovane Alberto De Marchi a scegliere il rugby?
«Dico la verità: Io ho giocato a rugby perché ero troppo grosso per giocare a calcio. Purtroppo da noi manca la consapevolezza di dire fin da piccoli “mi piace giocare a rugby”, al di là del fatto che tuo padre o tuo fratello abbiano giocato. Per attrarre i ragazzini bisogna investire sui club minori. Qualcosa sta cambiando, nonostante la nazionale sia perdente ha creato entusiasmo e i giovani ora stanno arrivando al rugby, li vedo. Ma è un processo a lungo termine».
Dopo Treviso ti attende la nuova esperienza a Sale: con che spirito la affronti?
«E’ la continuazione di un percorso che mi era prefisso. I due anni a Treviso mi hanno dato la possibilità di crescere e di farmi trovare preparato quando è arrivata la chiamata della nazionale. Il mio progetto sin dall’inizio era di fare quattro anni in Pro 12 e poi, se fosse stato possibile, di provare un’esperienza all’estero, non solo professionale ma anche di vita. Fortunatamente è andato tutto come speravo, e quest’anno sono arrivate un po’ di proposte. Con Tolone c’è stato il problema della mia indisponibilità immediata per l’Heineken Cup, altrimenti a quest’ora sarei già là. Fra le altre proposte che sono arrivate, di Sale mi ha convinto il desiderio che avevano di ingaggiarmi, e la professionalità che mi hanno dimostrato quando sono stato a visitare il Club. Si sono presentati con tutte le mie statistiche e i miei video degli ultimi due anni anni, mi hanno spiegato il motivo per cui volevano proprio me – il loro allenatore cercava un pilone concreto in mischia ma mobile anche fuori, e che all’occorrenza potesse giocare sia a destra sia a sinistra. Inoltre mi hanno fatto toccare con mano che in un club come il loro il giocatore viene messo nella condizione di pensare davvero solo alla partita. Sono cose che ti esaltano. Spero che tutti possano avere la chance di provare una esperienza del genere».
Da pilone: nel rugby di oggi è ancora così importante la mischia chiusa?
«Non è più il rugby di una volta, dove il pilone doveva badare solo alla mischia chiusa e a fare la prima guardia. E’ giusto così, il gioco va avanti, si evolve, però va anche detto che il rugby senza mischie non è più rugby. E ancora oggi se subisci in mischia la squadra ne soffre beneficio, anche mentalmente. Quindi io parto sempre dal fare bene in mischia chiusa, il resto è qualcosa in più».
Chi è oggi il pilone di riferimento a livello mondiale?
«Senza dubbio per quanto riguarda il pilone sinistro Cian Healy. E’ davvero forte in mischia, ma è come una terza linea in giro per il campo. Ovvio che giocare nell’Irlanda aiuta, specie in quella di quest’anno».
Come te anche altri azzurri sono destinati ad aggiungersi a quelli che già giocano all’estero. Questo nuovo esodo è un bene o un male?
«Secondo me è manna dal cielo. Tutti noi giocando all’estero alzeremo il nostro livello, e nel contempo daremo ad altri ragazzi in Italia la possibilità di giocare che abbiamo avuto noi. Il De Marchi passato attraverso quattro anni di Celtic League è molto diverso da quello che giocava in top-10. Se fossimo rimasti tutti, difficilmente le squadre avrebbero dato ai giovani la possibilità di giocare subito; sappiamo che affidarsi ai più esperti, in Italia, è inevitabile. Uno come Andrea De Marchi, che ha due anni meno di me e un potenziale enorme, avrà spazio, e potrà iniziare a incalzare gente come me e Aguero in nazionale. Lo so perché io non sono mai stato il primo in squadra, anche a Treviso ho dovuto sudarmi il posto. La competizione interna stimola».
Torniamo alla nazionale. Qualcuno sostiene che Jacques Brunel vi ha chiesto di stravolgere il modulo di gioco e per questo la squadra ha perso le certezze che aveva senza riuscire ad assumere ancora una nuova fisionomia. E’ vero?
«No, Brunel non ci ha chiesto troppo. Del resto siamo adulti e professionisti, non possiamo nasconderci dietro scuse del genere. Dobbiamo essere autocritici, certi errori non si possono fare. Ci sono tante piccole cose che dobbiamo sistemare. Tutti abbiamo commesso piccoli errori che sommati hanno creato un grande problema».
Il peccato mortale è stata la sconfitta in casa con la Scozia. Una partita già vinta. Che cosa è successo?
«E’ una partita che se la rigiocassimo dieci volte, la vinceremmo undici. Eravamo nettamente superiori, è stato prima un problema di errori individuali, e poi della frenesia di recuperare che ci ha fatto perdere la lucidità. La lezione che ho imparato è che in quei casi bisogna ripartire con calma, dalle basi, non strafare; invece ci siamo messi in crisi da soli. Loro non hanno fatto niente per vincere».
Ora il problema è come uscire in fretta da questa crisi, anche in vista dell’anno dei Mondiali del 2015. Sarà compito di Brunel tirarci fuori da queste secche?
«Non è Brunel che deve tirarci fuori, dobbiamo farlo tutti insieme, giocatori, allenatore, gli staff della nazionale, delle Zebre e della Benetton. Nessuno ha la bacchetta magica. Noi giocatori dobbiamo essere consapevoli che certe occasioni non si ripetono. Penso alla partita con la Francia: un primo tempo in cui ce la giocavamo e poi il black-out del secondo tempo, un rammarico che mi resterà addosso per il resto della vita. Questo cucchiaio è di tutti, e tutti insieme dobbiamo rimboccarci le maniche».
Il Presidente Gavazzi dopo la partita con l’Inghilterra ha parlato anche di “carenza di leadership”. E’ così?
«No, i leader ci sono. Parisse è un capitano che ha sempre la cosa giusta da dire, Ghiraldini è un punto di riferimento. Il loro compito l’hanno svolto. Parlo per me: siamo noi che dobbiamo tirare un po’ fuori le palle, essere più protagonisti, senza aspettare sempre la giocata di Sergio o di Leo che ci cavi dai guai. Lo ripeto, per tanti era il primo Sei Nazioni da giocare con un ruolo importante, e non è stato facile, ma ora dobbiamo crescere insieme. E io comunque vedo un futuro positivo per l’Italia».
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