Se ne va, se ne va, se ne va, l’Italia – come cantano i 5000 spettatori di Piazzale Diaz, ballando sui tubi Innocenti sparati in faccia o’ mare di Napoli, contro il più bello degli fondali possibili. Se ne va in semifinale di Coppa Davis, come non capitava dal 1998, sedici anni lunghi e quasi sempre amari, nei quali ci è toccata anche l’umiliazione della Serie C, sconfitti dallo Zimbabwe, che a ricordarlo oggi non sembra neppure vero. Ce la giocheremo a settembre, in trasferta contro la Svizzera di Federer e Wawrinka, uscita solo al quinto decisivo match dall’incubo Kazakistan (da La Stampa).
La firma sotto il bollettino finale è di Fabio Fognini, generale azzurro che non ha mai smesso di essere Masaniello, solo con più razionalità. Cuore sempre caldo ma capa (relativamente) fredda. «Ci ho messo la faccia», dice lui, un po’ Balotelli un po’ Matteo Renzi, e il bello per tutti è che non l’ha persa, anzi. Dopo il passo falso di sabato in in coppia con Bolelli ha messo sotto 6-3 6-3 6-4 Andy Murray, il numero 8 del mondo, poi ha lasciato ad Andreas Seppi il compito di portare contro Ward (n.161 Atp) il punto del 3-2, dopo uno spruzzo di pioggia.
Alla vigilia pareva un miraggio, un’impresa da San Gennaro. Il Fogna l’ha fatta sembrare quasi facile, due ore e 17 minuti di grande tennis su terra battuta. Un frullare di ritmi, di variazioni, di rovesci traccianti e dritti fulminanti, nove drop-shot vincenti (su undici tentati) che hanno prima deragliato, poi scorato Murray, magari un filo stanco dopo le oltre quattro ore passate in campo sabato ma molto british nel riconoscere col cuore triste che «Fabio di solito nei match ha qualche alto e basso, ti fa respirare; oggi invece mi ha sorpreso per la continuità. Il merito è tutto suo». Onesto, ancora prima che generoso (e infatti da bravo scozzese per regalare la racchetta a papà Fognini ha scelto accuratamente quella rotta). Un ‘impresa che ricorda quella di un altro talento febbrile, il Canè capace di sfibrare Wilander a Prato nel ’90, oppure il Camporese riciclato da Panatta ad Ancona nel ’97, distruttore di Carlos Moya.
Masaniello è cambiato, Masaniello è cresciuto. Gli occhi al cielo, i calci alle bottigliette, le risse verbali con gli arbitri restano – e ieri pure tre-quattro conati di nervoso alla Messi, sotto gli occhi di Flavia Pennetta arrivata apposta a Napoli per coccolarselo. La differenza è che adesso Fabio sa tenere al guinzaglio i demoni, governare le voci di dentro. «Finalmente ha capito che doveva crescere, se non voleva restare il solito cazzone italiano», spiega papà Fulvio. «Il merito è anche di Pep Perlas, il suo coach, e della sua moglie psicologa. Ma in fondo si chiama maturità». E’ l’età della ragione che da qualche tempo sembra attraversare come una scossa, prima rosa shocking, ora azzurro pieno, tutto il nostro tennis. Nel 2009 il numero 10 nel ranking di Flavia Pennetta – da un paio di settimane tornata al n.12 – nel 2010 il bang della Schiavone a Parigi, poi i successi di sara Errani e Roberta Vinci, nel 2011 la risalita nel tabellone principale della Davis, la vittoria di Gianluigi Quinzi nell’under 18 di Wimbledon.
La semifinale di Davis arriva al momento giusto, è insieme un traguardo e un’occasione di rilanciare l’immagine, la popolarità del tennis. «Mi fa piacere soprattutto per i ragazzi – sorride sornione Barazzutti, che di mestiere fa anche il capitano di Fed Cup – perché altrimenti le ragazze rischiavano di scappare troppo in avanti». Hanno fatto da elastico, le girls. I maschi come capita spesso nella vita, arrivano a rimorchio. «Andreas l’anno scorso è stato n.19 del mondo – racconta Barazzutti – Fognini oggi è n.13, punta alla top-10 ma sulla terra vale già i 3-4 più forti del mondo. Questa è una squadra omogenea, matura, che dopo la delusione del doppio ha saputo vincere di carattere, reagendo insieme. Se giochiamo sulla terra possiamo giocarcela con tutti. La Svizzera in trasferta? Godiamoci la vittoria. Sapendo però che con noi, se non stanno attenti, rischiano». L’impressione è che, comunque vada, sarà un successo.
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