Nelle ultime due partite del Sei Nazioni 2013 l’Italia mise paura all’Inghilterra a Twickenham e sconfisse l’Irlanda all’Olimpico, due partite senza incassare una meta. Quest’anno, a sedi invertite di mete ne abbiamo incassate 14: 7 a Dublino e 7 ieri a Roma. E’ arrivato puntuale il quinto Cucchiaio di legno (il 10° secondo la lettura moderna che lo assegna a chi arriva ultimo, non a chi perde tutte le partite), ma è come ci è stato servito che preoccupa. Era dal 2009 che non beccavamo 21 mete e non finivamo a 0 punti. Con Inghilterra e Irlanda si può perdere, ma certi bradisismi rischiano di affossare il morale. «Cosa è andato male? Quasi tutto», ha ammesso a baffi spioventi il ct Jacques Brunel. «Come me lo spiego? Non lo so. Abbiamo iniziato bene, ma finito male. Da questo Sei Nazioni c’è poco da salvare. Siamo indietro, e mi preoccupano i cali fisici di questa squadra. Ora dobbiamo capire che ruolo vogliamo giocare ai Mondiali del prossimo anno. Che ambizioni, mezzi (leggi: soldi, ndr) e organizzazione vogliamo mettere in campo». Un messaggio chiaro, un S.O.S. lanciato da un vicolo buio. Il modello-rugby, fatto di grande sportività, stadi esauriti (71.257 anche ieri) e un pizzico di moda si è rivelato vincente, ma perdere sempre sul campo rischia di farci tornare indietro di 10 anni, restituendoci al ruolo di turisti ovali. Touche, mischia, possesso, conquista, nella squadra di quest’anno, che pure ha lanciato giovani come Campagnaro (due mete a Cardiff) e Sarto, a segno anche ieri dopo il lampo in Irlanda, sembra essersi sgretolato tutto. Possibile? La spiegazione sta in un gomitolo di concause. Il Sei Nazioni è di natura volatile, chi domina un anno può sprofondare quello dopo – ma le nostre concorrenti hanno più tradizione e organizzazione, sanno ricostruirsi meglio e più in fretta. Quest’anno abbiamo pagato infortuni e assenze pesanti (Favaro, Minto, Zanni, Castrogiovanni, Parisse), e anche il tentativo di giocare un rugby diverso, più aggressivo: l’anno scorso la rivoluzione offensiva di Brunel aveva sorpreso gli avversari, quest’anno c’è stata una involuzione, siamo come rimasti a metà del guado: non ancora squadra completa, non più XV roccioso incardinato su mischia, maul e touche. Poi c’è la debolezza del nostro movimento, che non ha un campionato all’altezza e rischia di sprecare anche la chance internazionale in Celtic League, dove le due franchigie, le Zebre e la Benetton, arrancano. A Sei Nazioni in corso la Benetton ha annunciato la rinuncia alla Celtic nel 2015, togliendo serenità a molti dei nostri nazionali. Sembrava il momento giusto per la nascita di una franchigia veneta allargata, i Dogi, tramontata però in un amen fra litigi, mancanza di soldi e voglie di indipendenza della “leghista” Treviso, che mal sopporta le ingerenze tecniche federali. «Dobbiamo riflettere», ammette il presidente della Fir Alfredo Gavazzi. «Capire perché perdiamo partite già vinte, come contro la Scozia. Ai giovani manca esperienza: è giusto investire su di loro ma n.9 e n.10 (Allan, ndr) devono migliorare notevolmente in difesa e al piede. Qualche veterano invece pecca di presunzione, alla squadra è mancata la leadership nei momenti chiave (frecciata a Parisse? ndr). L’incertezza sulla Celtic League ha pesato, se l’80 % dei nazionali viene da due squadre che deludono, un contraccolpo è inevitabile». Rimedi? «Le franchigie devono essere una palestra per la nazionale dove formare giocatori, allenatori e manager italiani», affonda Gavazzi. «Dall’anno prossimo i soldi (4 milioni all’anno, ndr) la Fir li darà solo a patto che le franchigie adottino lo stesso sistema di gioco della nazionale. Basta pasticci. Bisogna lavorare insieme». E’ quello che chiede da sempre anche Brunel, la cui panchina – Gavazzi dixit – non è a rischio. A meno che non sia lui a mollare, sconfortato dal nostro futuro perennemente incerto. «Non drammatizziamo – sostiene Fabio Ongaro, ex azzurro ora team manger delle Zebre – abbiamo scommesso sui giovani, certe batoste ci stanno». Ma accettarle, e spiegarle, è sempre più difficile.
Nom è una visione moderna quella del cucchiaio di legno all’ultimo., è sempre stato così.
No, un tempo era dato a chi le perdeva tutte. Del resto senza classifica non è facile dire chi è l’ultimo. I concetti di classifica e di primo e ultimo (un tempo nel Sei Nazioni non c’era neppure il trofeo) per il rugby sono concetti relativamente moderni.
Scusa per il ritardo nella risposta.
È vero,una volta non c’erano nè il trofeo nè la classifica,ma il concetto di primo e ultimo esisteva eccome.Secondo la versione britannica,l’originale,il cucchiaio va all’ultimo classificato,secondo quella latina(Francia e Italia) a chi le perde tutte.
Pardon,mi ero scordato che avevamo giá avuto questa discussione.Fa finta che non abbia detto nulla.