Una domanda, come direbbe l’immortale Marzullo, sorge spontanea: la F.1 è un paese per vecchi? Per vecchi dirigenti, intendiamo, per boss stagionatissimi eppure difficilissimi da rimpiazzare, marginalizzare, dimenticare. Il sospetto viene a leggere le cronache che riguardano Bernie Ecclestone e la sua incompiuta defenestrazione da parte della CCV, oppure il grande ritorno di Ron Dennis alla McLaren; o ancora la cacciata di Ross Brawn che ha lasciata apparentemente attonita la Mercedes, i cambi di gestione alla McLaren. Possibile, viene da chiedersi, che senza i Mostri Sacri il Circus dia l’impressione di incepparsi, incapace di organizzare un ricambio al vertice? (da Italiaracing).
Sicuramente una parte della colpa è della crisi economica, che ha sottratto certezze e reso le scelte strategiche simili ad un campo minato. Le vacche grasse sono finite da tempo, oggi azzeccare le mosse giuste è difficilissimo, al minimo errore si rischia lo sprofondo. Specie quando a guidare le operazioni ci sono più finanzieri e investitori, attirati come le falene dai lustrini della F.1 ma poco esperti delle sue logiche e dei suoi trabocchetti. Gerard Lopez alla Lotus, ad esempio, non ha fatto che accumulare crediti, e i piccoli team sono sempre in più balia delle onde del mercato, delle promesse vaghe di investimento da parte di finanziatori fantasma o governi pronti a rimangiarsi le promesse alla primi crisi in Parlamento. Anche in casa nostra non mancano le nostalgie: Domenicali gode della stima di tutti, ma fatica ad incidere sui destini della Ferrari, e ad ogni pie’ sospinto scattano i rimpianti verso l’età dell’oro di Brawn – che pure ha smentito un suo possibile ritorno a Maranello – Byrne e Todt. E la voce più autorevole continua ad essere quella di Luca di Montezemolo. Chris Horner, per spostarsi appena oltre confine, è un team manager penta-titolato ma spesso sembra subire la personalità di Helmut Marko, mostra i denti ma raramente morde. Per anni ha faticato a domare la rivalità fra Webber e Vettel, e se non ci fosse Newey a cavare a tutti le castagne dal fuoco chissà che fine avrebbe fatto. Persino un personaggio responsabile e ragionevole come Martin Whitmarsh è finito nel tritatutto, “scambiato” sul mercato con Eric Boullier (che ora capirà la differenza fra essere un brillante outsider e un protagonista condannato a vincere). Autosport ha raccontato l’inopinato ritorno di Dennis mettendolo in relazione proprio con la crisi della McLaren, fatta di sentieri interrotti e decisioni sbagliate – quella di ingaggiare Sergio Perez ad esempio – e dipingendo uno scenario nel quale l’ex-meccanico inglese, anche se da CEO del McLaren Group e non più da team principal, tornerà ad essere il dominus del team di Woking. Magari allontanando l’ipotesi di un ritorno di Alonso in Inghilterra, vista la feroce antipatia che divide Dennis dal campione asturiano, ma rimettendo sui binari una scuderia che dopo l’addio di Button sembra aver perso la rotta dell’eccellenza.
Anche il Supremo dei Supremi, Bernie Ecclestone, a 82 anni e con addosso il macigno di una scusa per corruzione da cui dovrà difendersi in Germania in aprile, sembra aver fatto il suo tempo. Il fondo di investimento che detiene la proprietà della formula 1 lo ha sospeso, ma se il processo dovesse risolversi a favore del vecchio venditore di macchine usate che ha fatto della F.1 un business globale, il suo pensionamento effettivo è tutt’altro che sicuro. “Senza Ecclestone come ce la caveremo?” E’ la domanda silenziosa ma udibilissima che risuona nel paddock. All’orizzonte non si vedono sostituti credibili, personalità carismatiche in grado di gestire la transizione verso il futuro. E nemmeno dirigenti capaci di “spersonalizzare” il governo del Circus e renderlo più partecipato e democratico. Ma una F.1 fatta di vecchie cariatidi e di giovani bamboccioni rischia di sprofondare nella palude immobile di un eterno presente sempre nostalgico del passato e incapace di trasformarsi in futuro.
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