Inossidabile Bergamasco, 15 anni in azzurro

Mauro-bergamasco

Mauro Bergamasco, l’infrangibile: a 34 anni da domani sarà l’azzurro più longevo della storia del nostro rugby, con oltre 15 anni di nazionale supera infatti il mito Lanfranchi. E ricomincia dal Galles. Il segreto della longevità? «Forse lo scoprirò quando mi ritiro. Seriamente: porsi dei traguardi e lottare per ottenerli. Capire che l’importante non è arrivare in alto, ma rimanerci. Il gioco inizia lì».

Esordio nel ’98 contro l’Olanda: per resistere tanto ci vuole un fisico bestiale?

«Ho una buona carrozzeria, e bravi carrozzieri. Dal ’98 a oggi il rugby è cambiato molto, per resistere oltre che rispettare l’avversario bisogna rispettare se stessi».

I giovani che Brunel lancia contro il Galles saranno capaci di imitarla?

«I mix di età ed esperienza per me sono positivi. Differenti bagagli culturali, diverse concezioni del rugby, in concorrenza e mischiate nel «calderone» di una squadra reagiscono bene quando tutti lavorano per il bene comune. Però oggi il rugby cambia più in fretta di 15 anni fa, anche i giovani devono adattarsi ad una realtà in continua evoluzione».

Il ventenne Allan è il n.10 che aspettiamo da tanto?

«A novembre ha dimostrato carattere e qualità. Se continuerà così può diventare un ottimo giocatore»

Che Sei Nazioni sarà?

«Durissimo».

L’Italia in estate e in novembre è sembrata in crisi. Conferma?

«Capisco le perplessità di chi osserva dal di fuori. All’interno noi siamo coscienti di quello che abbiamo fatto bene e meno bene, si tratta soprattutto di ritrovare l’obiettivo comune. Problema superabile».

Attacchiamo di più, ma difendiamo peggio…

«Non c’è rapporto: difendi senza palla, attacchi quando ce l’hai. La difesa è sempre quella: quindici uomini che placcano. Brunel ha idee molto chiare, e adatte alla nostra mentalità. Non dobbiamo spaventarci degli errori, ma fare nostra la sua filosofia»

Si parte con le trasferte in Galles e Francia, due nazionali alle prese con problemi politici…

«L’ho già sentita questa: quando vanno in campo i gallesi sono sportivi, non politici. A Roma con i francesi abbiamo saputo sfruttare delle situazioni, ma li vedo in forma. Per noi è un inizio in salita».

Puntiamo al solito a battere la Scozia?

«Non partirei pensando che con loro sia più facile. Sono cinque partite difficili, punto».

Irlanda e Inghilterra?

«L’Irlanda si sta rinnovando, ma ha qualità per fare la differenza. L’Inghilterra raccoglie i frutti di anni di lavoro: verrà a Roma per imporre la sua fisicità».

Il ricordo più bello e il più brutto di questi 15 anni?

«Il più bello la vittoria sul Galles del 2007, giocando centro insieme con mio fratello Mirco.

Il più brutto la sospensione di 13 settimane nel 2008, per una ditata a Lee Byrne (gallese, ndr) che non gli avevo dato. Mi avevano già rotto la cornea quattro volte, figuriamoci se l’avrei fatto ad un altro»

Il più buffo?

«Quando ho fatto il mediano di mischia a Twickenham: si divertitono gli altri, io un po’ meno. Ma ora ci rido sopra».

A livello di club l’Italia del rugby non decolla: spiegazioni?

«Paghiamo le gestioni non adeguate di 15 anni fa. Oggi con la crisi i club faticano a investire»

Rimedi?

«Puntare sui vivai e sulla formazione dei tecnici. I ragazzi con il rugby imparano a vivere, servono educatori che li facciano crescere anche come uomini. Non sempre accade, mi sembra, anche se non ho tutti gli strumenti per poter giudicare bene».

Il rugby cambia spesso regole: sui passaggi in avanti, sulle mischie. Non c’è il rischio della confusione?

«Bisogna stare al passo con i cambiamenti, che sono fatti per migliorare il gioco, specie dal punto di vista della sicurezza, anche se a volte non funzionano. Però credo che si tratti di regole così tecniche che molti non se ne accorgono neppure. Non disturbano la comprensione di chi guarda. Ora la mischia è ancora più tecnica, i piloni devono capire come entrare e anticipare anche in un brevissimo spazio. Serve anche a levare una parte di scontro e di velocità che, con i fisici sempre più potenti di oggi, rischia di essere pericolosa».

Si parla di abbandonare la Celtic League: d’accordo?

«E’ un campionato che dà qualità, bisogna pensarci bene. E’ dura pensare di tornare indietro».

Il Seven alle Olimpiadi è un bene anche per il rugby a 15?

«E’ un bene per l’International Board, che così entra alle Olimpiadi, ma è tutto un altro sport».

Kirwan la voleva ala, Mallett l’ha fatta giocare mediano: si sente un atleta poliedrico?

«L’ala non mi è mai piaciuto come ruolo, ma in emergenza capita: ho giocato anche centro, anche mediano. Se serve, si fa tutto. Poi se gli allenatori me l’hanno chiesto vuol dire che si fidavano…».

Non è mai stato capitano. Rimpianti?

«Si può essere leader anche senza essere capitano. Mi sarebbe piaciuto, ma ormai non ci penso più tanto».

Lei e suo fratello Mirco siete i volti del boom del rugby in Italia, sia in campo sia fuori: come avete fatto a conciliare sport e apparizioni extrasportive?

«A chi ci proponeva attività extrasportive abbiamo sempre detto che eravamo rugbisti in attività, e che i nostri tempi erano dettati da questo. Un modo per ricordarlo a loro e per ricordarlo a noi stessi».

Potrebbe giocare il quinto mondiale: è uno dei famosi obiettivi da porsi?

«Ne parleremo dopo, quando avrò smesso di giocare».

Con i giovani che vivono con l’iPod nelle orecchie anche da sportivi come si colloquia?

«Dipende anche da noi vecchi. Siamo tutti figli della nostra epoca, oggi il mondo è diverso, è un po’ il discorso delle regole. Non puoi fermare la corsa del tempo. Io comunque faccio così: aspetto che spengano l’iPod e approfitto di quel momento…».

Si immagini fra 15 anni: uomo d’affari o l’allenatore che ci farà vincere il Sei Nazioni?

«Be’, speriamo di vincerlo prima. Mi vedo più alle prese con una azienda, anche se mi piacerebbe lavorare con i giovani. Comunque servirà tanta gavetta».

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