Più veloci, più potenti, più pesanti. Non necessariamente più feroci, sicuramente sempre più pericolosi. Gli atleti del nuovo Millennio sono Navy Seals applicati allo show, negli sport di contatto sono progettati e istruiti per accelerare e colpire: spostando, bloccando o abbattendo bersagli fatti di carne come loro. Sabato a Cremona l’impatto con un missile terra-terra chiamato encefalopatia traumatica cronica (1 metro e 97 per 91 chili) è costato al centro della nazionale azzurra di rugby Luca Morisi l’asportazione della milza. Luca sta bene, tornerà a giocare appena i medici lo permetteranno, e può consolarsi pensando che senza milza Valeria Straneo ha vinto un argento mondiale nella maratona e Emanuele Giaccherini si è guadagnato la nazionale di calcio. A molti è andata peggio (da La Stampa).
Nel football americano 34 atleti su 35 sono a rischio di encefalopatia traumatica cronica, una malattia che provoca perdita della memoria, depressione, aggressività incontrollata, demenza senile. Di Etc soffriva Junior Seau, linebacker dei San Diego Chargers e dei Miami Dolphins che si è suicidato nel maggio del 2012, proprio come Ray Easterling, o Dave Duerson, che prima di spararsi un colpo al cuore aveva mandato un sms ai suoi genitori: «fate esaminare il mio cervello». E tutti oggi si chiedono con ansia come mai Brett Favre, il quarterback più amato degli States, a neppure 50 anni non sia più in grado di ricordarsi dove ha appena accompagnato sua figlia.
Nell’hockey su ghiaccio, lo sport dei body-check e delle risse istituzionalizzate (una ogni due partite di media nella Nhl) dopo che il giovane Jack Jablonsky è rimasto paralizzato i dirigenti dello sport universitario hanno iniziato a cambiare le regole per vietare i contatti più crudi. Il football sta pensando di abolire il kick-off, il calcio d’inizio che produce frantoi umani, il rugby ha appena cambiato per l’ennesima volta le regole d’ingaggio della mischia, evitando lo slancio delle prime linee che ora per iniziare a spingere devono aspettare di appoggiarsi (dolcemente, in teoria) l’una all’altra. E da tempo sono vietati i placcaggi alti, quelli in aria, o il micidiale “spear tackle”, il placcaggio che ti ribalta, che costò mesi di inattività al capitano dell’Irlanda Brian O’Driscoll. Certo: football americano, rugby e hockey non sono sport “da signorine”, come ripete da secoli lo stereotipo che fa imbufalire Nanni Moretti. Ma un tempo gli schianti avvenivano fra corpi normali, oggi sempre più fra apparati muscolari quasi alieni. «E’ proprio così», conferma Vincenzo Ieracitano, ex terza linea del Cus Genova, presidente della commissione medica della nazionale di rugby, che istituzionalmente e per passione si occupa da anni proprio della gestione degli incidenti sportivi». Per questo gli sport di contatto stanno cercando di introdurre nuove regole. Io non voglio fare del terrorismo, per carità, ma non dobbiamo nascondere la testa sotto la sabbia. Occorre lavorare sia sul primo soccorso, anticipando da bordocampo le possibili situazioni a rischio, sia sulla ripresa agonistica degli infortunati. Occorrono grande sensibilità e grande cultura, se non altro per evitare di peggiorare la situazione quando si interviene, soprattutto a livello di sport di base». Per combattere i rischi di un arresto cardiaco, ad esempio, è stato introdotto l’uso del defibrillatore. «Ma quella è soprattutto la vittoria di una lobby – scuote la testa Ieracitano – il vero problema dello sport sono i traumi».
In Inghilterra, patria del rugby, 110 giocatori sono rimasti paralizzati sul campo. Negli Stati Uniti già 4000 giocatori hanno citato per danni la National Football League. Nel 2010 Allyson Pollock, una professoressa di educazione fisica scozzese, dopo aver letto uno studio che elencava i 37 infortuni riportati in 190 partite dai ragazzi delle scuole del suo Paese, ha chiesto l’abolizione della mischia. «I coach a livello giovanile – sostiene la Pollock – non sono sufficientemente preparati. E visto che la maggior parte dei giovani non passerà mai al professionismo, perché i loro corpi devono essere schiacciati, tritati e sbattuti?».
Un interrogativo che non riguarda solo sport di contatto estremo. «Le conseguenze di un incidente possono essere immediate – continua Ieracitano – e sono a disposizione per dimostrare con immagini molto eloquenti gli sconquassi che provoca ogni domenica il calcio. Ma possono essere più infide. Dopo un trauma cranico ad esempio c’è una finestra di vulnerabilità di circa due settimane, in cui il cervello è a rischio. In caso di un secondo trauma può scatenarsi una sindrome da ipertensione endocarnica che porta alla morte immediata, mentre una serie di contatti prolungati nel tempo il rischio è di innescare la Etc. Per questo tutte le categorie impegnate nello sport – allenatori, medici, dirigenti, organizzatori, gli stessi parenti – devono attrezzarsi di grande attenzione e rispetto, evitando di manipolare gli atleti per costringerli a rientri precoci. Anche perché per valutare i danni cerebrali a lungo termine non disponiamo di esami certi, ma solo di valutazioni empiriche. E’ da anni che ne parlo nei corsi che tengo. Ma spesso mi sembra di predicare nel deserto».
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