Hanno facce simpatiche, nomi stranieri e cognomi da paisà: Anthony Minichiello, Josh Mantellato, Chris Centrone. E soprattutto placcano, corrono e vincono. Sono gli azzurri della Rugby League, l’altro rugby, quello che si gioca in 13 invece che in 15, dove la mischia non esiste e la palla non sta ferma mai. Domenica scorsa hanno esordito nel Mondiale che si gioca in Gran Bretagna, il primo nel quale vene ammessa l’Italia, battendo il Galles a Cardiff, la settimana prima in amichevole avevano fatto secca l’Inghilterra a Salford, la città dove è nato il Prandelli della “League”, Carlo Napolitano (oh yes). (da La Stampa)
Colpacci che ai cugini nobili del 15 non hanno mai ottenuto. Risultato: i british li onorano – ieri sono stati ricevuti dal Principe Carlo a Clarence House e hanno fatto il giro d’onore all’Old Trafford nell’intervallo di Manchester United-Norwich City – mentre qualche italiano diversamente ovale li guarda con spocchia. Perché sono tutti o quasi australiani – le eccezioni sono l’astigiano Gioele Celerino e Fabrizio Ciaurro – figli e nipoti di emigranti che nella ARL, la potentissima lega pro australiana del “13”, e l’italiano lo parlano a stento. «Ma con tutto il rispetto – obietta Tiziano Franchini, ex giocatore oggi dirigente al seguito della nazionale – cosa aveva di italiano Fiona May? Il passaporto, come i nostri giocatori. Che in nazionale giocano per 250 sterline la settimana, giusto il rimborso spese, e per la maglia si commuovono pensando ai loro padri. Del resto mi pare che nel Sei Nazioni del rugby a 15 abbiamo contato per anni, e ancora contiamo, su argentini, neozelandesi, sudafricani. Lo stesso Chris Gower che proviene dal “13” australiano ha giocato da apertura per l’italia Nick Mallett, e oggi è in Inghilterra con i nostri ragazzi. Siamo un movimento piccolo (350 circa i tesserati, ndr), abbiamo bisogno di visibilità». A piazzare l’ultima meta contro il Galles (32-16) è stato il capitan Minichiello, una leggenda in Australia dove gioca nei Sydney Roosters con un ingaggio da 350 mila euro. «L’italiano lo parlo poco – ammette – ma l’inno lo cantiamo tutte le sere prima di cena. Per noi è una grande emozione indossare la maglia dell’Italia: mio padre Marco a 13 anni partì da Milito, in provincia di Avellino, faceva il meccanico e ora ha una ditta di trasporti a Melbourne. In Italia sono stato tante volte, e a Sydney ho conosciuto Alex Del Piero: grande campione. Però faccio il tifo per il Napoli». In Italia il rugby a 13, nato nel 1895 da una scissione di 22 club del nord operaio dell’Inghilterra stanchi di dover giocare decoubertianamente gratis, in Italia ha attecchito nel 1949 per merito della Ginnastica Torino. Era scomparso negli anni ’60, è stato resuscitato a inizio ‘90 per merito di due paisà, Mick Pezzano e John Benigni. Oggi vive da parente poverissimo del “15”, piagato da faide federali, eppure è lì che sogna di battere anche Tonga e la Scozia e giocarsi un quarto di finale contro la Nuova Zelanda di Sonny Bill Williams. Una pinta di birra, per gli italiani d’Australia.
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