Su le mani per Cuba. Su i guantoni, le scarpette, i bastoni, giù gli ostacoli. Lo sport professionistico, che nell’isola governata da Fidel Casto era stato bandito all’indomani della rivoluzione dei “barbudos”, nel 1959, torna ad essere legale. Un provvedimento che è già stato ratificato dal consiglio dei ministri dell’isola caraibica ma che per ora è stato reso pubblico solo da Granma, l’organo ufficiale del Partito Comunista Cubano. Basta stipendio di Stato, variabile indipendente dai risultati, da ora in poi «la retribuzione dipenderà solo dai risultati ottenuti negli sport che praticano». A mediare nella stesura dei contratti sarà sempre l’Istituto Nazionale dello Sport, ma gli atleti, assicura Granma, «non saranno trattati come merce». Potranno trattenere i premi vinti nelle competizioni disputate all’estero, con percentuali però fisse: l’80 per cento agli atleti, il 15 per cento agli allenatori, il 5 per cento al resto dello staff. E Cuba libre, per festeggiare.
L’anticipo era arrivato mesi fa con la piccola liberalizzazione nel campo del baseball, uno degli sport più popolari e di successo a Cuba, che negli anni aveva provocato una quantità di diserzioni verso i ricchi campionati nordamericani. A tre giocatori era stato permesso di firmare un contratto con la formazione pro messicana «Piratas de Campeche», la prima crepa nel muro dei divieti che negli ultimi decenni aveva convinto campioni oltre che del baseball anche dell’atletica, del pugilato, e della pallavolo (vedi il caso di Taismary Aguero) a «scegliere la libertà», come si diceva ai tempi della guerra fredda. Ai maghi del guantone che rimarranno in patria sarà ora consentito di guadagnare 200 dollari al mese, dieci volte la media dello stipendio cubano, ogni medaglia olimpica varrà 104 dollari. Cifre ridicole in confronto a quello che potranno spuntare all’estero i campioni cubani, senza più passare per traditori.
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