Lui avanti, e tutti gli altri indietro. Lui capace di dominare pole (anche azzardando in qualifica) e gara, e gli altri in grado solo di scannarsi per vincere la volatona del gruppo. Lui in testa alla classifica e pronto già a mettere le mani sulla quarta coppa del mondo consecutiva, e gli altri già con la testa alla prossima stagione (da italiaracing)
Lui sul gradino più alto del podio, e tanti altri sotto – i tifosi, i fan, gli appassionati che ieri hanno assistito al GP di Singapore – che lo fischiano impietosamente. E ingiustamente.
Una delle vittorie più impressionanti di Sebastian Vettel, la numero 33 della sua impressionante carriera di 26enne fuoriclasse della Formula 1, è finita con un retrogusto amaro. Con i fischi e i buu che lo hanno bagnato sul podio dove invece sia Fernando Alonso e Kimi Raikkonen era stati accolti da boati di gioia. La futura coppia ferrarista perde, ma conquista; Sebastian il dominatore stravince ma non riesce a farsi amare.
E’ lui il padrone del campionato, il “dominus” di tutta la F.1. Eppure molti lo guardano con diffidenza, addirittura con antipatia. Un paradosso fino a un certo punto, se il punto di vista è quello dei tifosi, il popolo delle corse che è abituato a dare retta soprattutto alle emozioni, nel bene e nel male.
Era già successo a Monza, e allora era stato facile dare la colpa alla scarsa educazione sportiva italica, al tifo becero che troppo spesso da noi (do you remenber, Riccardo Patrese?) si sostituisce alla passione. Il bis di Singapore è altrettanto condannabile, e ribadisce che – purtroppo – tutto il mondo è Paese, che non siamo solo noi italiani ad essere a volte offuscati dal troppo amore per la Rossa. Anzi, l’italianissimo Stefano Domenicali è stato molto bravo, anche se in quel momento una sana rabbia agonistica gli ruggiva sicuramente dentro, a riconoscere con sportività i meriti di Vettel e della Red Bull. Che sono innegabili, e che nella gara di Singapore hanno preso forma in maniera impressionante. C’è stato un momento in cui Vettel aveva già scavato il solco con la “truppa” alle sue spalle eppure ad ogni giro rifilava due secondi agli inseguitori più vicini. «Ma cosa vuol dire che devo spingere di più?…», urlava quasi disperato Rosberg nella radio al suo box, mentre dal muretto di Vettel arrivano raccomandazioni alla calma, incitimenti a risparmiare macchina e gomme. Eppure.
Il popolo di Singapore, un popolo in fondo cosmopolita, arrivato in Asia anche da tante parti diverse del mondo, evidentemente non si è divertito. Troppo netta la superiorità della squadra di Mateschitz, che da quattro anni ha imposto il suo verbo al Circus. E forse troppo freddo, poco capace di entusiasmare, un campione pure straordinario come Vettel.
«La Ferrari ha una grande tradizione e un grande seguito in F.1 – ha provato a spiegare Seb dopo la gara, amareggiato anche lui per l’accoglienza del pubblico – se ci avete fatto caso sotto il podio il colore dominante era il rosso, anche se ultimamente il blu sta crescendo sempre più. La Ferrari ha vinto più di tutti, e i suoi tifosi sono molto emotivi, non amano quando è qualcun altro a vincere. Non è bello essere fischiati, e mi rendo conto di non aver contribuito a rendere la gara molto eccitante. Ma in giornate come queste non mi importa più di tanto. Se mi fischiano così significa che sto facendo un buon lavoro. Ed è merito anche del team, successi del genere non nascono così, per caso. So quanto sono stremati i miei meccanici e i miei ingegneri quando lasciano il circuito».
Vettel ha ragionissima, e anche se l’idea che ha fischiarlo sia stata una clacque ferrarista che viaggia di GP in GP («sono ricchi, e sempre gli stessi in molti circuiti») è un filo esagerata, ha ragione a tirare dritto per la sua strada. Se le altre scuderie da quattro annni non riescono a scalzare l’egemonia degli uomini in blu, la colpa non è certo di Horner, Newey e compagnia, anzi. Sono le altre squadre, Ferrari in testa, a doversi rimboccare le maniche.
Diverso è il discorso che riguarda Vettel. Per molti i suoi meriti individuali sbiadiscono o addirittura scompaiono davanti a quelli de i un progettista geniale come Newey e del team. «Vince solo perché ha la macchina più veloce di tutti», è la critica che ormai tutti gli muovono. Critica facile, sicuramente ingiusta, alimentata negli anni dai mugugni e dai veleni fatti circolare anche dai suoi colleghi, rafforzata dalle recriminazioni del suo compagno Mark Webber, che specie negli ultimi due anni alla Red Bull ha vissuto da separato in casa, convinto che “tutte capitino sempre a me”. E non per caso, evidemente.
Un tarlo che inizia a rodere un po’ troppo anche dentro a Vettel. Il più precoce dei campioni di F.1, che ancora ragazzino è ormai sulle tracce di Ayron Senna (gli mancano 8 vittorie), e sta per superare indoli come Jackie Stewart. Ma che non riesce a trascinare le folle, a farsi amare, a farsi accettare come fuoriclasse senza se e senza me. Un po’ quello che accadeva a Schumacher prima che approdasse a Maranello. Per questo, su quel podio, in mezzo alla Ferrari di ieri, di oggi e di domani, forse Vettel si è definitivamente convinto che anche il suo futuro – come tanti suggeriscono da tempo – dovrà passare per la Ferrari. Per ragioni che sfuggono alla logica, alla razionalità, e che vanno a toccare regioni più profonde. Per dimostrare di saper vincere anche con una scuderia diversa dalla corazzata Red Bull. E per conquistare il cuore della F.1, che – giusto o sbagliato che sia – rimane sempre e soprattutto rosso.
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