Oggi a New York iniziano gli Us Open, lo Slam americano, ma l’America del tennis non c’è.Assente ingiustificata da dieci anni o giù di lì, ma nuovamente e ferocemente umiliata il 5 agosto scorso da una edizione del ranking mondiale in cui, per la prima volta dal 1973, anno di inizio delle classifiche computerizzate, non compariva nessun tennista americano fra i primi venti. Stranissimo, ma vero.
Parliamo di maschi, ovviamente, perché fra le ragazze Serena Williams è sempre avvitata al n. 1 del mondo, e un gruppetto di piccole donne le sta crescendo attorno. A quasi 32 anni Serena è rimasta però sola a difendere l’onore di quella che per gran parte del secolo scorso, insieme all’Australia, è stata la vera superpotenza del tennis mondiale. La culla di Big Bill Tilden e di Jack Kramer, di Connors e McEnroe, di Sampras e Agassi, la nazione che ha fatto nascere (con Nick Bollettieri) le academy ipertrofiche dove sono cresciute come ultracorpi le prime ondate di baby campionesse russe.
Ritiratosi nel 2010 Andy Roddick, l’ultimo mohicano del tennis Usa – ultimo a vincere uno Slam proprio agli Us Open 2003, a raggiungere una finale di prestigio a Wimbledon nel 2009, ad arrivare al n.1 delle classifiche… – la crisi del movimento che molti avevano iniziato a decifrare dopo il ritiro di Pete Sampras e Andre Agassi è diventata palese. Puff, gli Usa sono scomparsi. Pare impossibile, ma oggi il miglior tennista maschio a stelle e strisce è John Isner, il pivot di Greensboro, alto 2 metri e 7 centimetri e che tutti ricordano quasi unicamente per l’elefantiaco (11 ore) primo turno di Wimbledon 2009 contro Mahut. Da un paio di settimane è rientrato nei top-20 (n. 17), al servizio fa paura ma a 28 anni suonati non può inquietare più di tanto i primi dieci del ranking che, da Djokovic a Gasquet, sono tutti europei, con l’eccezione dell’argentino Del Potro.
Gli yankee nell’83 avevano 19 tennisti fra i primi 100, dieci anni dopo ancora 12, con due top-10 e freschi vincitori di Slam come Agassi e Roddick. Oggi ne contano appena 6, 4 dei quali dal n.86 in giù, compresi due over 33 come James Blake e Bobby Reynolds. Polvere di vecchie stelle. Ma come hai fatto, America, a cadere così in basso? «Penso che il tennis americano si sia un po’ seduto», sostiene proprio il mitico Pistol Pete. «Negli altri Paesi i migliori atleti vengono indirizzati al tennis, da noi giocano ad altri sport. Quello che è accaduto negli anni ’90, io, Agassi e Courier, è improbabile che si ripeta. In quel momento tutto ha funzionato ma non succede ogni 10 anni»
I motivi sono anche altri, intrecciati fra di loro: investimenti sbagliati, un filo di arroganza, la mancanza di un campione carismatico. Ma Sampras ha molta ragione: a contare è soprattutto la spietata concorrenza interna di sport che negli ultimi decenni si sono mossi più efficacemente sul piano del marketing e del reclutamento e sanno intercettare meglio i sogni e i desideri dei giovani talenti americani. Specie di quelli meno agiati. Se sei ispanico o italo-americano vuoi diventare un divo del baseball, se sei afro-americano football e basket offrono paradisi più allettanti (e meno costosi) del tennis- per gli immigrati dell’est c’è l’hockey.
Lo sport professionistico americano è incardinato su quello universitario, e mentre per le quattro grandi Leghe gli anni del College rappresentano un apprendistato perfetto, un tirocinio programmato, nel caso del tennis spesso non fanno che ritardare l’immissione in ruolo dei futuri campioni. Che al momento del loro sbarco nel circuito, a 22-23 anni, si trovano svantaggiati rispetto a spagnoli, argentini e tennisti dell’est che hanno iniziato a studiare da professionisti appena fuori dall’asilo. E che hanno più fame di soldi e di successi. Agassi e Sampras erano figli di immigrati iraniani e greci, la nouvelle vague è tornata ad essere molto “wasp” (bianca, anglo-sassone e protestante) e fatica ad imporsi in un mondo nuovo, geo-economicamente complesso. «Eravamo abituati a dominare – sospira l’ex tennista e ora commentatore tv Justin Gimelstob – ma ormai il mondo è cambiato». Good bye, vecchia America del tennis.
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