Di amore non si muore, nel tennis. Ma ci si stanca. Così finisci la benzina e ti accorgi che quel sentimento che in campo è anche un punteggio – love – nella tua vita ormai vale meno di zero. Che vincere non basta. Marion Bartoli da poco ha voltato le spalle al titolo vinto un mese fa Wimbledon, è scesa dal ring di gesso bianco, solo in apparenza più gentile di quello della boxe. Niente più tennis, per lei. «Il mio corpo e la mia mente non ce la facevano più». Non ha ancora 29 anni, è numero 7 del mondo, avrebbe potuto, se non altro, lucrare ancora buoni montepremi e ricchi ingaggi. Invece. «Per vincere a Wimbledon ho dovuto andare oltre i miei limiti». Una sorpresa, per chi il tennis lo vede dalle tribune o davanti alla tv. Non per chi lo vive negli spogliatoi, per chi ha visto per anni gli allenamenti di Marion, gli esercizi che le imponeva papà Walter.
«Scottsdale 2003, me lo ricordo perché allora giravo per il circuito», dice Daniel Panajotti, il coach argentino che ha portato Francesca Schiavone da n.40 a numero 11 del mondo, e che oggi si prepara a lanciare una nuova academy a Verona. «Mi riferirono di scene molto dure fra papà Bartoli e sua figlia prima di una partita. Le palle mediche con cui costrinse a due ore di allenamenti sua figlia appena prima di una semifinale a Los Angeles invece le ho viste di persona. E’ sempre stato molto fiero dei suoi metodi, e ora che la figlia ha vinto Wimbledon può dire di aver avuto ragione. Ma a che prezzo? A Marion è andata bene, un grande torneo lo ha portato a casa. Ma quante pagano caro la volontà dei genitori di vivere attraverso di loro successi che per loro erano impossibili? Io ai mie preparatori tecnici ho sempre detto: il vero risultato è quello che ottieni nella vita, dobbiamo allenare i ragazzi perché arrivino sani a 90 anni. Non tutti la pensano così».
Marion è solo l’ultima di una serie di ragazze interrotte, di giovani femmine che l’onore, la gloria e il conto in banca li hanno pagati cari, versando interessi che non è possibile calcolare. Anche fra i maschi non mancano i campioni esaltati e devastati insieme dal rapporto con genitori-allenatori esigenti, ossessivi, a volte (troppe volte) brutali: l’autobiografia di Andre Agassi è un documento splendido e terribile in materia. Le violenze di John Tomic (una testata in faccia all’allenatore del figlio Bernard) quest’anno hanno aggiornato il catalogo. Ma la casistica al femminile è molto più vasta, più inquietante.
Andrea Jager, la tedeschina dalle trecce lunghe che disse basta a 19 anni, stremata dalle ruvide attenzioni di papà Roland, muratore svizzero che l’aveva scambiata per una macchina da soldi. Era una bad girl, una McEnroe al femminile, poi la conversione: da vent’anni cura i bambini malati come suora laica. Mary Pierce fu costretta ad ingaggiare una guardia del corpo per tenere a distanza papà Jim (che finì accoltellato). Martina Hingis è stata programmata per diventare se stessa da mamma Melanie, e il suo primo addio al tennis lo diede a 22 anni, Jelena Dokic è stata per anni tormentata dal numero 1 assoluto dei genitori orchi, Damir. Persino Maria Sharapova ha dovuto allontanare babbo Yuri che in tribuna andava col cappuccio da psicotico e le faceva segno di tagliare la gola alle avversarie. Kill, baby, kill. Jennifer Capriati non si mai veramente ripresa da un’infanzia sotto pressione, dall’invadenza di papà Stefano, dopo i furterelli e i problemi con le droghe, è passata dall’altra parte della barricata: il 17 dicembre verrà processata per stalking e percosse a Palm Beach, per mesi ha tormentato il suo ex fidanzato Ivan Brannan, il giorno di San Valentino ha esagerato. Da vittima a persecutrice. E poi Aravane Rezai, costretta a far bandire dal circuito il padre-padrone, Miriana Lucic e la sua brutta storia di abusi sessuali, altre ancora. Perché tocca sempre più alle ragazze? Papà Bartoli un giorno rispose a chi lo accusava di aver interferito troppo: «ma lei a 12 anni manderebbe sua figlia in giro per il mondo in compagnia di un coach che nemmeno conosce?».
«La verità è che siamo siamo condizionati da una cultura molto maschilista», continua Panajotti. «Anche papà Capriati ha messo una pressione enorme su Jennifer, e in maniera diversa oggi la Wozniacki soffre per la presenza pesante di suo padre. Io sono stato in Messico per dei tornei Itf e lì giravano da sole, senza neanche il coach, delle ragazzine dell’est. Bionde, belle, occhi azzurri: non è successo nulla. I pericoli a 12 anni sono uguali per maschi e femmine, ma i genitori diventano iperprotettivi con le ragazze. Rischiando di soffocarle. Non ti fidi? Okay, accompagnala. Ma non rinunciare al coach. Fai il padre, o la madre, non l’allenatore. Mischiare i due ruoli è pericoloso. Credo che Francesca Schiavone sia invece stata molto fortunata ad avere genitori che l’hanno sostenuta, aiutata, ma senza mai voler essere protagonisti. Il risultato? A 33 anni è ancora lì, sana e arrazzatissima per il tennis. E uno Slam, il Roland Garros, lo ha vinto anche lei. Come la Bartoli». Con amore. Quello che vale più di un quindici.
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