Ha mancato il triplete, ma non importa. Gli anglosassoni ormai lo chiamano Jazzy Fabio e sono convinti che il ragazzo dalla racchetta piena di swing sia l’uomo giusto per correggere gli spartiti ultimamente un po’ noiosetti del tennis mondiale. Creativo, esplosivo, rapido sul campo come Charly Parker lo era sulle chiavi del sassofono. E fino all’altroieri anche “maudit”, disordinato, irriverente proprio come i musicisti folli dell’epoca d’oro del be-bop, quelli che la vita la volevano sempre e comunque spericolata.
Per noi italiani Fabio Fognini resterà sempre “Fogna”, anche se in tre settimane il ragazzo che troppe volte ci deludeva si è trasformato nell’uomo che ha rivoluzionato le statistiche e la storia del tennis italiano. Stoccarda, Amburgo, Umag, una suite in tre tempi, tre finale consecutive, due vinte, come nessun azzurro era riuscito a fare da molto tempo. E dire che da Wimbledon, a fine giugno, Fabio era uscito dalla porta di servizio, battuto al primo turno da Jurgen Melzer e multato di 10 mila dollari dopo l’ennesima sceneggiata in campo. «Quel giorno ci siamo scambiati sms di fuoco – racconta papà Fulvio – a casa non ci siamo parlati per due settimane. Ero furioso. Poi ha vinto a Stoccarda e mi ha mandato un messaggio: “ciao Daddy”, e ci siamo riappacificati. Ma credo di aver fatto bene a tenergli il muso». Per trovare precedenti all’impresa di Fognini junior bisogna risalire all’84 – due finali consecutive di Cancellotti – o addirittura al 1976, l’anno santo del nostro tennis, nel quale Adriano Panatta si aggiudicò “back-to-back” Roma e il Roland Garros. Due vittorie di caratura decisamente diversa, anche se un filo teso fra Fabio e Adriano c’è. In quel 1976 Panatta vinse 14 match di fila fra Roma, Parigi e Nottingham, Fognini si è fermato a 13. Ma la cavalcata gli è valsa – viva la numerologia – anche la posizione n. 16 nel ranking mondiale, a pari punti con il n.15 Marin Cilic che però vanta un miglior rendimento nello Slam. Era dal 1979, Barazzutti n. 12 dopo essere stato n. 7 un anno prima, che un italiano non bivaccava così in alto. Per 34 anni il numero 18, raggiunto da Camporese, Gaudenzi e per ultimo da Seppi lo scorso gennaio, ha rappresentato una dogana insuperabile per il nostro tennis. Fabio l’ha scavalcata e ora gli si aprono davanti praterie inedite, una vertigine che si chiama top-10, magari un posto al Masters. «Andiamoci piano – sorride lui – i primi 10 sono un obiettivo, ma parliamo di un traguardo enorme, ancora tutto da conquistare». La grande corsa di Fabio è iniziata in Australia a gennaio, «quando non vincevo una partita ma avevo capito di essere sulla buona strada», e si è accelerata in aprile, con la semifinale a Monte-Carlo. Merito di mesi finalmente in salute dopo il calvario degli anni precedenti: infortunio al polso fra il 2008 e il 2010, alla coscia sinistra nel 2011 (quando non giocò i quarti a Parigi), nel 2012 ai piedi per un distacco della fascia plantare dell’osso che lo ha bloccato 3 mesi e che gli è stato curato dal dottor Combi, il medico della sua amatissima Inter. E di un coach, Pep Perlas, che in passato era stato al fianco di fenomeni come Carlos Moya, Albert Costa, Guillermo Coria, e a Fabio ha cambiato vita e tennis. Insegnandogli a ragionare di tattica, a scegliere le motivazioni giuste. Un tecnico di esperienza assoluta e dall’onorario pesante: 200 mila dollari all’anno, pare. «Tanti, ma spesi bene», chiosa il Daddy. Insieme con il fisoterapista Marc Boada, catalano anche lui, quest’inverno Fabio a Barcellona si è preparato sprintando in spiaggia per non affaticare il piede infortunato, giocando a tennis con i guantoni per allenare il polso fragile. «La prossima partita la vinco per te, coach», e Perlas che gli rispondeva: «e una per tuo padre, tua mamma, tua sorella: il vero salto lo farai quando vincerei per te stesso». Detto, fatto. Fabio in Germania ha vinto scambi, set, partite già perse; in Croazia è il giocatore che va per primo a letto. La maturità, a 26 anni, accanto alla bellezza rasserenante della sua fidanzata modella bulgara Sveta Simeonova. Racchette spaccate? Tre, in tre settimane. «Perché stare concentrato non vuol dire comportarsi sempre bene ». Un’altra l’ha buttata fra la folla dopo la semifinale con Monfils, prima di scappare dallo stadio e tuffarsi in mare insieme all’amico Massimino, un ragazzo di Arma di Taggia come Fabio, ma non altrettanto fortunato, che la famiglia Fognini ha quasi adottato ed è diventato la mascotte del gruppo. Per la finale gliene erano rimaste tre, non sono bastate a battere Robredo (6-0 6-3) e soprattutto il nervosismo, ma una serata storta non può cancellare tre settimane da sogno. Anzi.. «Se vinco tanto ora è merito dei piccoli dettagli che ho studiato con il mio coach, e di tanti sacrifici. Per migliorarsi bisogna sbagliare e capire i propri errori, ma anche fare di testa propria». Un po’ studiando gli spartiti, un po’ improvvisando.
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