L’immagine che fece il giro del mondo era già allora un fotogramma, un pezzo di vita che impressiona la mente e mette in moto la storia: il piccolo padre nero che sorride al grande figlio bianco, mano nella mano, occhi negli occhi. Con lo stesso jersey verde addosso, il numero 6 sulle spalle. Anche il dialogo era già scritto: “Grazie per quello che avete fatto per il Sud Africa”. “Presidente, è niente rispetto a quello che ha fatto lei per il Sud Africa”. Ellis Park, Johannesburg, 25 giugno 1995.
Per quattordici anni l’happy-end della terza Coppa del Mondo di rugby, l’ottentotto Nelson Mandela che consegna la coppa a Jacobus Francois Pienaar il biondissimo afrikaaner di origini ugonotte, capitano di quella che per decenni era stata la nazionale più razzista del mondo, ha aspettato qualcuno che si accorgesse che c’era già una sceneggiatura, si chiamava realtà, e che dicesse motore, ciak, azione. Poi ci ha pensato Clint Eastwood ed è nato Invictus, il film che ha quattro anni fa raccontato l’avventura di una squadra, gli Springboks, di una nazione, il SudAfrica, e di grandi uomini come Mandela e Pienaar. Forse la più bella avventura dello sport nel XX secolo.Francois, il lato biondo della favola, è nato e cresciuto a Vereeniging, città industriale a sud di Johannesburg. Nel 1960 nella township nera di Sharpeville, alle porte di Veereniging, la polizia uccise 69 dimostranti neri. «Ma noi eravamo una tipica e famiglia di lavoratori afrikaans”, racconta Pienaar. “Non parlavamo mai di politica e credevamo al 100 per cento alla propaganda».
Mandela nel ’94 era stato appena eletto presidente del Sud Africa. Veniva da 27 anni di prigionia, voleva finire il lavoro di una vita. Nel 1990, alla parata per la sua liberazione, dopo un lungo tormento, si era palesato Morne Du Plessis, l’ex capitano e allora manager degli Springboks. Un mito afrikaans. Mandela, come i neri lungimiranti che quel giorno di quattro anni prima aveva difeso l’immenso e imbarazzato omone bianco da un nero ubriaco che voleva cacciarlo dal party, capì che il rugby, lo sport bianco e sporco di vergogna che era appena uscito dal bando internazionale, poteva diventare uno strumento fenomenale.
Durante la segregazione, ai match degli Springboks, un settore dello stadio era comunque riservato ai neri. Che lo stipavano per tifare per la squadra avversaria. Mettere insieme palla ovale e orgoglio nero pareva una impresa assurda, prima ancora che disperata. Ma “Madiba” lottò, e riuscì ad ottenere l’organizzazione dei Mondiali del ’95.
Un giorno di giugno del 1994, poi, invitò Pienaar a prendere un tè con lui all’Union Building. Il capitano fu accolto dall’altissima, severissima segretaria nera di Mandela, Mary Mxadana. «Ero tesissimo. Che cosa devo dirgli?, mi chiedevo. Poi Mxadana mi fece entrare nell’enorme sala vuota dove Madiba mi aspettava, lui si alzò sorridente e mi venne incontro: ‘Ah! Francois, sei stato gentilissimo a venire! Vuoi un po’ di latte nel tè?’ Si congratulò con me per la vittoria con l’Inghilterra, ci mettemmo a parlare. Dopo cinque minuti il mio umore era del tutto cambiato. Non è solo amichevole, Madiba. E’ che con lui ti senti al sicuro». Pienaar uscì dall’ufficio con un amico in più, che gli aveva consegnato un messaggio: «sentitevi fieri della maglia degli Springbok, perché io lo sono. E vincete il Mondiale». Il Presidente continuò a chiamare il Capitano per tutto l’anno successivo, informandosi, incoraggiando la squadra: «piccole cose – spiega Pienaar – ma che per noi furono fondamentali». Riuscì, insieme a Du Plessis, anche a convincere gli Springboks (be’, qualcuno degli Spingboks…) a imparare a memoria Nikosi Sikelele, il nuovo inno in lingua Xhosa, e a cantarlo. I Bok non erano i favoriti del mondiale, nemmeno quando arrivarono in finale contro gli All Blacks.
«Io quel giorno commentavo la partita per la radio”, ha raccontato Nick Mallet, l’ex ct sudafricano dell’Italia. «E per la prima volta vidi sudafricani di tutti i colori e le religioni tifare insieme. All’inizio l’appello di Mandela a tifare per gli ‘amabokoboko’ non era stato preso bene dalla gente di colore. Ma quella partita per noi sudafricani oggi continua a significare molto più di una finale vinta. Perché significò arrivare tutti insieme ad un momento, magari breve, ma intensissimo, di unità nazionale». Il potentissimo all black Jonah Lomu fu fermato, Pienaar giganteggiò in difesa, il piede di Joel Stransky piazzò 15 punti, compreso il drop nei tempi supplementari: 15-12 per gli Springboks. «Oggi ha sentito tutti i 63.000 dello stadio tifare per voi?», chiesero dopo il fischio finale a Pienaar. «No, oggi ho sentito 42 milioni di sudafricani tifare per noi». Poi la stretta di mano, la foto destinata a fermare il tempo.
Il sogno del Paese arcobaleno, negli ultimi 15 anni, si è molto sbiadito. Le tensioni razziali continuano, ma resta quell’immagine, il sogno di una cosa. E la certezza, per tutti i sudafricani, che anche a 95, anche confinato in un letto, Madiba è l’uomo con cui tutti, ma proprio tutti, si sentono sicuri di potercela fare.
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