Quinzi, un italiano (giovane) in finale a Wimbledon

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«Domenica penso di vincere io. Non mollerò una sola palla». Gianluigi Quinzi ha 17 anni, avrebbe potuto fare lo sciatore, sarebbe forse stato il nuovo Tomba. Invece ha scelto il tennis («anche mia madre che ha giocato a pallavolo sciava bene, quando lei si rotta i legamenti abbiamo deciso di cambiare sport»), e così ora tutti sperano che diventi il nuovo Panatta.

Per il momento è in finale a Wimbledon: nel torneo under 18, che un solo italiano, Diego Nargiso nel 1987, è riuscito a vincere. Rita Grande perse il femminile nel ’93, nel baby-Slam il bilancio azzurro è di 9 vittorie e 5 finali.

Ieri Quinzi ha battuto 6-4 6-4 il Murray dei piccoli, Kyle Edmund, domani se la vedrà con Hyeon Chung, occhialuto coreano dedito al serve&volley. Gianluigi sull’erba un po’ scivola, con le volée ancora ci litiga. «Sì, devo migliorarla – spiega con l’accento gaucho-marchigiano, bizzarro e un po’ rauco – non perché non la so fare ma perché la gioco poco convinto». Dopo la sconfitta nell’u.18 del Roland Garros aveva già deciso di cambiare molto: «il dritto, a furia di cesti, per renderlo più aggressivo. E poi il servizio: prima lo mettevo in campo, ora cerco le righe».

Perché “Gian”, nato a Cittadella ma cresciuto a Porto San Giorgio nel circolo del padre Luca, ingegnere e appassionato di sport, e poi negli Usa alla corte di Bollettieri dove a 12 anni gli offrirono una borsa di studio, ha già capito che il tennis non è un paese per bambini. A inizio anno era numero 1 del mondo fra gli juniores, a maggio ha vinto il suo primo 10 mila dollari da pro, in Marocco e oggi è già n.405 nel ranking Atp. Un mondo adulto, dove si sbaglia da professionisti.

«Fra gli juniores c’è chi ti regala la partita – ammette – nel circuito ti prendono a pallate. Mi sono reso conto che se voglio sopravvivere devo fare più male con i colpi». Il suo coach è un argentino, Eduardo Medica, pagato in parte dalla Fit, a Buenos Aires ha un appartamento dove fa base per gli allenamenti, e sudamericani sono anche i suoi preparatori atletici Rodrigo Salinas e Horacio Anselmi. «In Argentina ci passo qualche settimana prima dei tornei. Mi alleno con i pro, con Juan Monaco, con Guido Pella. Con Nadal reggo il palleggio, nessuno mi dà 6-1 6-1: il tennis ce l’ho, mentalmente sono pronto. Mi manca l’esperienza». Non la capa, non la tigna. In campo Quinzi si ingobbisce, sbuffa, borbotta, scuote la zazzera biondiccia da marines, agita il pugno. Ma non cede mai di un centimetro. Più Barazzutti che Panatta, per il momento. Più rovescio che dritto. E alla fine sono gli altri a fare crac. Wimbledon è il suo secondo Slam preferito: «il primo è gli Us Open, perché si gioca sul veloce, ma devo ammettere che quando ho battuto Edmund per la prima volta in vita mia ho versato una lacrimuccia di commozione». I genitori non lo accompagnano mai ai tornei: «mio padre è troppo ansioso, mia madre pure: a vederli in tribuna mi innervosirei pure io».

Il consiglio dell’antenato Nargiso è di «fidarsi di chi l’ha portato fino a qui, senza avere fretta, non cercando subito i risultati a tutti i costi come feci io, perché così si creano troppe aspettative». Per Rita Grande, «l’importante è che si goda l’atmosfera. Il mio è un ricordo che ho vivissimo ancora oggi, se riesce lo condivida con le persone  care». Romanticismo o preoccupazione? Gian alza le spalle. «Le tensioni ci sono, devi imparare a gestirle. Di quello che dicono gli altri non mi preoccupo, i giornali e i blog non li leggo mai, vado avanti per la mia strada». Anche, domani, contro il coreano con la faccia da secchione? «Io bado a tenere il servizio – taglia corto Gian – Gli altri, prima o poi, calano». Quindici-zero.

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