Murray-Djokovic, il duello dopo l’anarchia

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Dopo due settimane di anarchia e un venerdì fatto di emozioni extralarge alla fine Wimbledon è tornato nei binari. La finale maschile sarà quella che tutti si aspettavano e volevano, domani se la giocheranno il n.1 e il n.2 del mondo, Novak Djokovic e Andy Murray. E’ la seconda per tutti e due, con la differenza che Djokovic una l’ha già vinta, nel 2011 contro Nadal, mentre da Murray, che l’anno scorso perse il big-match contro Federer tutta la Gran Bretagna si aspetta il miracolo, la fine di una carestia che dura dal successo di Fred Perry nel 1936, l’ultimo di un britannico nei Championships. E la fifa che il sogno svanisse anche stavolta, nonostante i buoni consigli dispensati ad Murray da sir Alex Ferguson, consulente improvvisato in un patto di fraternità scozzese, ieri è circolata sul Centre Court. Murray si è trovato un set sotto contro il bombardiere polacco Jerzy Janowicz, poi un set pari ma indietro di un break nel terzo, e a un quarto alle nove ha dovuto subire – infuriandosi: «non è giusto, la regola non è così!» – anche i venti minuti necessari a chiudere il tetto. Janowicz lo voleva, Murray no (con qualche ragione visto che c’erano ancora 40 minuti di luce), il pubblico ha subissato di fischi il giudice arbitro del torneo Andrew Jarrett. A serata inoltrata Murray è poi è riuscito a vincere anche indoor, il Regno ha sospirato di sollievo e ora attende l’Evento.

Per aver ragione di un Del Potro eroico, oltre istrionico, Djokovic nella prima semifinale aveva dovuto invece estrarre dal cappello l’ennesimo record da maratoneta, spuntandola 6-3 al 5° set dopo 4 ore e 43 minuti di tennis prima noiosetto poi ispirato, vario, persino funambolico. La più lunga semifinale nella storia di Wimbledon, che ha superato le 4 ore e un minuto del match fra Becker-Lendl del 1989. Novak quest’anno aveva già giocato quinti set da sturbo agli Australian Open (vittoria 12-10 contro Wawrinka) e con Nadal al Roland Garros (9-7 per Rafa) e proprio insieme al Nino due anni fa in finale a Melbourne vinse 7-5 al quinto la più lunga partita della storia dello Slam, 5 ore e 53 minuti. «Ma a questo livello a Wimbledon non avevo mai giocato», ha buttato lì alla fine Nole, sempre abilissimo nel lavoro di comunicazione,  dopo essersi allacciato in un abbraccio da manuale del fair-play con l’amico Delpo.

Ieri avrebbe potuto chiudere il conto già al quarto set – due matchpoint annullati da Del Potro –  ma è vero che ha rischiato anche di farsela scappare al quinto, quando l’argentino l’ha costretto ad annullare una palla break. Il joker torna dunque in finale a due anni dal trionfo del 2011 su Nadal, vendicando fra l’altro la sconfitta che proprio a Wimbledon gli era costata il bronzo olimpico; ma il vicitore morale è Juan Martin. Il gaucho non più triste pare definitivamente tornato quello pre-infortunio al polso, capace di vincere gli Us Open 2009 annichilendo Nadal e Federer. Con il dritto a percussione ha spesso disarticolato il Joker, mandandolo in spaccata sull’erbetta, e con due o tre siparietti da consumato showman gli ha anche rubato la scena, esilarando il centrale e facendo impazzire gli argentini in camiseta alboceleste sulla Henman Hill. Il Centre Court al quinto set non gli porta benissimo – alle Olimpiadi ne perse uno epico 19-17 contro Federer in semifinale. «Ma se continuerò a giocare così contro il numero 1 del mondo  – ha saggiamente concluso –  credo che il futuro sarà interessante, per me». Anche per il tennis.

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