La gara era iniziata da tre giri, neanche dieci minuti, l’asfalto alla Tertre Rouge, la curva che immette sull’infinito rettilineo dell’Hunaudieres, appena inumidito dalla pioggia. L’Aston Martin Vantage GTE di Allan Simonsen ha sbandato, si è intraversata, ha finito la sua corsa contro le barriere ad una velocità alta, troppo alta, e lo si è capito subito. Poi i teli, i soccorsi, tempestivi e professionali, ma inutili, la corsa all’ospedale. Tre ore dopo il comunicato della direzione di gara della 24Ore di Le Mans ha annunciato la morte del 34enne pilota danese, sette Le Mans alle spalle, campione di Formula Ford nel suo Paese nel ’99, che da anni si era ritagliato una carriera più che dignitosa nelle gare Gran Turismo, e che nella classe GTE Am – la stessa in cui corre l’attore Patrick Dempsey con la Porsche della scuderia di cui è coproprietario Alex Del Piero – quest’anno a Le Mans era partito dalla pole.
La corsa non è stata interrotta, e l’altra Aston Martin del team è rimasta in gara su espressa volontà della famiglia di Simonsen. Per onorare la sua memoria, la sua voglia di correre. Una passione che come scrivono in Gran Bretagna persino sui biglietti che ti staccano al botteghino quando entri in autodromo, «is dangerous». Una febbre, un mestiere ad alto rischio.
Morire dopo nove minuti in una gara che dura un giorno può essere beffardo, ma non cambia né il dolore né le regole del gioco: si va avanti, anche quando il buio è più scuro della notte. Una legge che chi vive fuori dalle corse a volte fatica a capire, ma che se non altro funziona da antidoto all’ipocrisia.
Simonsen è la 22esima vittima della corsa più bella e famosa del mondo. L’ultimo a rimetterci la pelle era stato il francese Sebastien Enjolras, durante le pre-qualifiche del 1986, la sua vettura perse un pezzo di telaio e prese il volo nel cielo sopra Arnage. Da allora sulla Sarthe furono vietati quei tipi di chassis, e anche questo è un rito dell’ambiente: ad ogni lutto, un passo avanti nella sicurezza delle vetture, in una rincorsa comunque impossibile da completare. L’ultimo caduto in gara era stato invece Jo Gartner, nella notte del 1986, uno schianto pieno di fiamme dopo la virata di Mulsanne. La 24 Ore non è una gara “maledetta” come la Dakar o il Tourist Trophy, ma nel 1955 è pur sempre stata teatro della più grossa tragedia nella storia delle corse: 83 morti “ufficiali” – ma qualcuno dice 130 – e 100 feriti maciullati dal metallo della Mercedes 300 SLR di Pierre Levegh, che quell’anno dopo un contatto decollò sul rettileo dei box planando atrocemente sulle tribune. La Mercedes per 30 anni si ritirò dalle corse, la Svizzera le abolì. La 24 Ore è andata avanti.
I progressi della tecnologia l’hanno resa più sicura, ma il tracciato stradale, su strade normalmente aperte al traffico; gli alberi e i muretti piazzati a un passo dai guard-rail; la notte, la velocità, la differenza di velocità fra prototipi e Gt, la presenza di piloti non professionali la mantengono comunque pericolosa, oltre che terribilmente affascinante. Ne sanno qualcosa il nostro Dindo Capello, o il suo compagno alla Audi Allan McNish, che nel 2011 si salvò da un botto imprressionante alla curva Dunlop, o ancora Mark Webber, l’attuale compagno di squadra di Sebastian Vettel alla Red Bull, che nel 1999 atterrò miracolosamente illeso fra gli alberi dopo un paio di capriole nelle qualifiche e nel warm-up. A Simonsen è andata peggio, la differenza – brutale ma onesta – sta tutta qui.
Bravo, finalmente un articolo commosso ma non ipocrita. Forse qualcuno se lo era dimenticato ma le corse sono,erano,pericolose. Troppo comodo vedere solo il jet set miliardario e del tutto non rischioso della F.1. Chi accetta la corse ne accetta il rischio.