Nadal, la normalità del serial winner

Nadal   9:2010

«Mio figlio? E’ così normale…». Allarga le braccia mamma Ana Maria, la adorabile genitrice del Cannibale che ha appena finito di mordicchiare la sua ottava coppa del Roland Garros, battendo nella più prevedibile delle finali il suo rassegnato companero David Ferrer. Rafa Nadal (foto Melchiorre di Giacomo) è riuscito in qualcosa di inedito nella storia del tennis, mai nessun maschio era mai andato oltre le sette vittorie nello stesso Slam: né Federer, né Sampras, e neppure gli illustri antenati Tilden, Larned, Renshaw, Sears, seminati in una immortalità ormai sbiadita a cavallo fra ‘800 e ‘900.

Ce l’ha fatta il Nino, dopo un anno vissuto dolorosamente, fra infortunio al ginocchio e riabilitazione, in mezzo a una domenica fredda e umidiccia nella quale  il rischio di una interruzione per pioggia (che pure l’anno scorso l’aveva salvato contro Djokovic), le irruzioni in tribuna di quattro contestatori della legge Hollande sui matrimoni gay e quella di un invasore desnudo che è riuscito a intrufolarsi in campo brandendo una torcia, lo hanno inquietato decisamente di più dei colpi del suo avversario. Non a caso, forse, la stretta di mano più sincera Nadal l’ha riservata non ad uno spaesato Usain Bolt, che gli ha consegnato il trofeo al termine del match, né al presidente della federazione francese Jean Gachassin – ma all’addetto alla security che ha provvidenzialmente bloccato lo streaker.

Sono stati due lampi di mondo dentro il recinto chiuso del tennis, banalità da malandrini proiettate sulla straordinarietà normalità di un campione che in nove partecipazioni al Roland ha perso una sola partita – contro Robin Soderling, negli ottavi del 2009 – e che ieri ha aggiunto altre cifre alla sua leggenda.

La vera finale, peraltro, l’aveva giocata venerdì contro Djokovic , quasi cinque ore di battaglia. Contro David Ferrer, il suo ammirevole e volenteroso clone, battuto ora 20 volte in 24 match, e che era riuscito a strapparli un match sulla terra solo nel lontano 2004, non era immaginabile una sorpresa. Che poi David abbia quattro anni più di Rafa ma ne sia una copia non deve stupire: come diceva Borges, i grandi autori creano sempre i loro predecessori.

Da ieri dunque nessuno ha vinto tanti match come Nadal a Parigi (59), nessuno, nemmeno Borg, può dirsi migliore di lui sulla terra. «Eppure Borg in campo mi sembrava imbattibile – racconta Toni Nadal, il severo maieuta del Nino – mentre Rafa no, non ho mai la sensazione che non possa perdere». Nessun grand’uomo, insomma, è tale per il proprio coach. Una spiegazione meno banale del solito, del consueto appello alla grinta, alla forza mentale del nipote però Zio Toni la fornisce. «Tutti parlano della testa e del cuore di Rafael – sostiene Toni – ma secondo me la sua qualità più grande sta nella mano. Guardate quanti colpi riesce a piazzare dove vuole, nonostante i ribalzi incerti e la tecnica particolare del suo dritto. Senza una grande sensibilità sarebbe impossibile».

Un riconoscimento dovuto, nel giorno in cui il Nino è salito al terzo posto fra i plurivincitori di Slam, sul podio dell’immortalità dietro a Federer e Sampras e sullo stesso gradino di Emerson. Perché senza sensibilità, la grinta di Ferrer e la magia di Nadal sarebbero indistinguibili.

I meccanismi insieme razionali e discutibili del computer oggi paradossalmente lo retrocederanno di un posto nel ranking mondiale, facendolo scavalcare al n.4 proprio dallo stesso Ferrer che ieri contro di lui ha raccolto appena otto game: colpa dei punti accumulati lo scorso anno con la settima vittoria, e che nel gioco degli scarti non sono migliorabili dall’impresa di ieri. La serialità dunque non paga, nel tornaconto immediato del tennis; eppure è una delle chiavi per l’immortalità dello sport: introduce un’aura soprannaturale, suggerisce l’esistenza del genius loci, di un misterioso, segreto adattattamento di una fisiologia ad un ambiente, ad un Paese, ad una città, ad un terreno.

Valentino Rossi e i suoi sette successi al Mugello, Indurain e i suoi cinque Tour de France, Ayrton Senna e i cinque centri a di Monte-Carlo, i sette successi di Chris Evert qui al Roland Garros, i nove dei Martina Navratilova a Wimbledon, le nove gare mondiali vinte in Germania dal Cannibale dei rally Sebastien Loeb o ancora le otto 24 Ore di Le Mans nel palmares di Tom Kristensen costituiscono l’abbozzo di una mappa dei serial winner sulla quale ieri Nadal ha piantato una bandierina forse irripetibile. Una cartografia che collega straordinarietà e normalità, eccezionalità e routine.

Per leggerla serve però la guida di Rafa in persona: «se non ci fosse uno scopo, una meta, lo sport sarebbe una cosa stupida Perché sono un agonista così forte, perché riesco a vincere tanto? Perché amo lo sport. Perché amo trovare soluzioni ai problemi». Per ritornare ad essere se stesso Nadal, navigando nei problemi, ha dovuto cambiare abitudini, modificare gli allenamenti. E combattere i dubbi. «Chi sostiene che sono più in forma adesso che prima dell’infortunio non sa quello che dice. So che non tutti sono felici di rivedermi con questa coppa – aggiunge con una punta di veleno – ma se sono qui è grazie a chi mi è stato vicino. Il ginocchio mi fa male, ci sono settimane migliori e altre peggiori. Non è vero che non ho mai paura, che non ho mai dubbi: solo gli arroganti non li hanno. Tutto nella vita è così pieno di incertezza. Ma se non credessi di poter migliorare, di questa vita che ho avuto in dono, non avrei capito proprio nulla». Normale, no?

Comments

  1. Gentile Cronista,
    bel pezzo non banale (non facile dopo otto vittorie). Tra i serial winner metterei però anche Lance Armstrong e i suoi sette Tour de France…

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