Sanguina il cuore, come una madonnina dolorosa, nel vedere Roger Federer ridotto alla reliquia di se stesso uscire dal centrale martirizzato, e solo il rispetto impedisce di usare termini più umilianti, da un Jo-Wilfried Tsonga peraltro meritevolissimo e ispiratissimo nel trentennale del trionfo di Noah, il suo avo perfetto – francese con cromosomi africani, Camerun per Noah, Congo per Tsonga – oltre che il primo dei suoi tifosi. Il mito Yannick, che forse venerdì, per la semifinale con Ferrer si degnerà di finalmente di apparire sul Centrale, sotto specie di talismano e feticcio.
E’ uno di quei giorni che ti prende la malinconia, e il bambino che ci resta dentro spera che la spiegazione di una sconfitta così netta, così scoraggiante, riposi nelle vertebre e nelle fibre affaticate del Genio, protette ieri sotto la t-shirt da una simil-Gibaud, e che l’ennesimo miracolo di una carriera peraltro ampiamente soprannaturale ce lo restituisca in futuro più bello e più superbo che pria.
Lo scettico ne dubita – ahinoi – fortemente. Il realista italiano si consola, e assai, con l’impresa di Sarita Errani, che un anno dopo la sorprendente finale qui ha Parigi sta replicando le sue concretissime magie.
A impressionare è la robustezza, morale più che fisica, acquisita dalla nostra Formichina Atomica. Nel suo quarto di finale contro Aga Rawanska, la maestrina polacca che l’aveva battuta sei volte su sette, ieri è entrata in campo da sfavorita teorica, ma da favorita reale sulla terra rossa di Parigi. Non troppo serena, non troppo tranquilla, perché come sappiamo tutti confermarsi ad altissimi livelli è la sfida più difficile dello sport. E Sara la pressione l’ha sentita, in questa settimana, eccome.
Lo sentono tutti, del resto, da Nadal in giù, il trac, il miedo, l’ansia da prestazione, in questo gioco inventato dal diavolo. Ma per ora Sara ha dimostrato di saperci convivere da fuoriclasse, da vera numero 5 del mondo che sulla terra forse vale anche di più. Lo ha dimostrato contro la polacca, che le sta appena un gradino sopra nel ranking. Il tennis della Radwanska, euclideo ma fatto di cotone, sembra Spinoza applicato ai cucirini, un forcing geometrico solo apparentemente soft che Sarita ha saputo fronteggiare e smontare con istinto trigonometrico non meno forte, e con una saldezza di nervi esemplare (vedi le cinque palle break salvate nel quinto gioco del primo set).
Da intrusa, in questi 12 mesi, la Errani si è mutata insomma in predestinata. In semifinale ora le tocca la Panterona, che ieri ha inaspettatamente tribolato contro la Kuznetsova. «A questo livello in uno Slam ci sta di trovare una giocatrice come Serena – dice lei – sono contentissima per il mio torneo, non mi aspettavo mai di arrivare in semifinale dopo la finale dello scorso anno. Qui a Parigi difendo tanti punti, c’era molta tensione, per me era una situazione nuova in un torneo così importante e duro». La tattica, sostiene il suo simbiotico coach Pablo Lozano, sarà ovvia, quasi banale: «muoverla il più possibile, cercando di sfruttare le poche occasioni. E per il resto resistere, resistere. Resistere da eroi». L’anno scorso in finale contro la Sharapova, sempre secondo Pablo, Sarita si sentì forse appagata. «Quest’anno sono sicuro che si giocherà la partita non per perderla bene, evitando la figuraccia, ma per vincerla». Usando la ragione per addomesticare il sentimento.
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