Kentucky Derby, l’America delle opportunità

139th Kentucky Derby

Charlotte volteggia davanti alla giuria sul pink-carpet con i suoi quasi settant’anni e il vestitino corto corto e rosso-nero stretto attorno al fisico da ex modella, in testa un cappellino che pare il logo delirante di una telecom venusiana. «La moda mi piace tanto – dice, fissandoti con due occhi azzurri appena risciacquati nell’eterno sogno americano – e qui mi sto divertendo un sacco. Se spero di vincere? Certo, perché no?».

Se vuoi giocartela, del resto, questo è il posto giusto: Churchill Downs, l’ippodromo di Louisville, dove ieri si è consumato il 139esimo Kentucky Derby, uno show che va in pista dal 1875 e che non ha mai mancato una replica, attraversando guerre e alluvioni, cavalcando secoli e presidenti. Mentre sulla pedana del beauty-contest si sfidano piccole ladies e attempate miss che per l’occasione sfoderano mise improbabili e spericolati cappellini, in pista sprintano i venti purosangue di tre anni alla loro prima grande uscita in società: «fast women and beautiful horses», donne veloci e bei cavalli, come recita il motto rovesciato dell’America che ad ogni primo weekend di maggio si specchia in se stessa.

Coco Rocha

Un palcoscenico da 165 mila spettatori paganti che vale 217 milioni di dollari di indotto, l’evento sportivo di un solo giorno più popolare d’America dopo il Superbowl, il più affollato del mondo dopo la 500 miglia di Indianapolis. La “gara delle rose”, perché ogni vincitore viene premiato con una ghirlanda, i “due minuti più eccitanti di tutto lo sport”, o ancora, se preferite dirlo con le parole di John Asher, vice-direttore di Churchill Downs, «lo spettacolo più democratico degli States, la quintessenza dell’american dream. I cavalli che corrono Il Kentucky Derby hanno solo una chance, perché l’anno dopo non potranno riprovarci. Ma in quel giorno tutti possono farcela, non importa quanti soldi ha chi li possiede. Qui hanno trionfato miliardari,  capitani d’industria e cooperative di appassionati che hanno sborsato 5000 dollari a testa per finanziare l’impresa. Una gara secca, l’occasione da non perdere: molto romantico, no? Infatti siamo l’unico evento sportivo americano che ha un pubblico formato per più della metà di donne».

Un pubblico variopinto, trasversale, interclassista. In mezzo alle due ellissi concentriche di erba (turf) e terra battuta (dirt) si accampano le decine di migliaia di spettatori da 40 dollari a biglietto, nelle suite in cima alle tribune si rilassano i 318 che ne sborsano fino a 7000, con diritto a un trattamento extralusso e all’intimità di un giorno con vip come Michael Jordan o Steffi Graf. Ma tutti alla fine si mescolano insieme nel gusto per la scommessa e per il pantalone vintage, per la giacca a righe e il cappellino di paglia, il tacco rosa e la zeppa da vertigine himalayana, l’eleganza alla Grande Gatsby e il kitsch da matrimonio suburbano. Un melting-pot cementato dalla passione per le corse.

Jennifer Judkins, Juan-Carlos Capelli, Kenneth Ramsey

«Qui trovi fianco a fianco il macellaio e il presidente della Nbc», annuisce Juan Carlos Capelli, vice-presidente di Longines, il marchio svizzero che sponsorizza e cronometra l’intero weekend. «Lo spirito è diverso sia da quello di Ascot, dove regna la formalità, sia da quello del Prix de Diane, che è un grande pic-nic casual. A Churchill Downs tutto è grande. E mescolato insieme».

Una festa mobile che inizia il giovedì, con il “Taste of the Derby”, l’assaggio dove a gareggiare sono gli chef che arrivano, come il pubblico, dai quattro angoli degli States, da Miami a Los Angeles, da New York a New Orleans. Il venerdì la prova generale è il Kentucky Oaks, la gara rosa in onore della ricerca sul cancro, con le macchine parcheggiate a 10 dollari l’ora nei giardini di Oleanda Avenue, fra le verandine color pastello che ospitano mille party casalinghi. Il sabato alle sei e mezzo di sera, finalmente esplode il Derby vero e proprio, sulle note da ballad sentimentale di “Old Kentucky House”. E’ il  trionfo del south-east fradicio di storia e di tradizioni, semplice, molto “friendly”, repubblicano nel cuore ma oggi governato da un democratico; della patria di Muhammad Ali – l’altra grande gloria di Louisville, il campione ribelle che ieri si rispecchiava in Kevin Krigger, l’unico fantino nero in pista – ma anche del paladino di Scientology Tom Cruise. Il Kentucky paese del bourbon dove però, sostiene fra il divertito e lo scandalizzato la bionda pierre che vive a New York, «fatichi a trovare acqua frizzante e latte scremato».

Il Derby, in una giornata diaccia e umida, piena di pioggia, che però non ha scoraggiato il pubblico, ancora più colorato del solito, l’ha vinto Orb, il favorito, cavalcato dal fantino Joel Rosario, uno abituato a sgomitare nel “mud”, nel fango, per la gioia della famiglia Phipps, una dinastia nel mondo delle corse a cuo però la cora delle rose era sempre sfuggita. Il concorso di bellezza alla fine se l’è preso Suzie, griffatissima Miss Nessuno di trent’anni – vestita Oscar de la Renta, calzata Jimmy Choo e premiata dalla supermodella canadese Coco Rocha – che oggi se tornerà felice alla sua vita senza red carpet di Miami Beach. «Ci ha messo gusto e passione – ammette la giurata-giornalista di Harpers’s Bazaar – quindi ha meritato di vincere». Tanto di cappello, America.

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