Il tennis moderno è nato morbido. Bianco, leggero, elegante, era lo sport che seguiva il sole in una eterna primavera, secondo le regole di un diletto tenero, gemmato, vegetale a cominciare dal nome: lawn tennis, il tennis che si gioca sui prati.
Walter Clopton Wingfield, il suo inventore – meglio: l’uomo che capì come commercializzarlo – lo aveva pensato così leggero da essere trasportabile in una scatola, e adattabile ad ogni superficie, persino al ghiaccio – ma ideale soprattutto per i giardini vittoriani popolati da signorine in crinoline e gentlemen in pantaloni di flanella. A vederlo oggi praticato così generosamente sul cemento, sul “duro” come dicono gli anglosassoni, in un peep-show di muscoli e grugniti, fra atleti rigorosamente installati a fondocampo e precocemente afflitti da patologie invalidanti, sicuramente inorridirebbe. Ma la sua rivincita forse non è così lontana.
Dal 2015 infatti le due settimane che tradizionalmente separano il Roland Garros da Wimbledon diventeranno tre, e il risultato potrebbe essere un inaspettato revival del Verde, per la felicità dei puristi e il dispetto degli ortopedici. Il torneo di Stoccarda ha già pianificato un cambio di superficie, dalla terra all’erba; Amburgo e Gstaad ci stanno pensando e anche il circuito femminile medita di raddoppiare gli appuntamenti sul verde. Nel caso di Stoccarda l’erba rosicchierà un po’ della stagione sulla terra battuta, ma in realtà i due “fondi” più classici e tradizionali del tennis sono neanche troppo segretamente alleati nella lotta al loro avversario sintetico, il cemento.
Una superficie che negli ultimi 30-40 anni si è diffusa enormemente, diventando il terreno (il luogo?) comune dello sport: perché comporta meno problemi di manutenzione e perché con il suo tipo di rimbalzo medio offre un (teorico) punto di incontro neutro, un Checkpoint Charlie del tennis fra attaccanti e regolaristi, erbivori e terraioli.Fino al 1975 tre tornei dello Slam su quattro si giocavano sul verde. Oggi la metà dei majors – leggi Us Open e Australian Open – si disputano sul “duro”, come del resto 37 tornei del circuito maschile, contro 22 sulla terra e 6 sull’erba. Il democratico asfalto, comoda autostrada che ha sostituito i sentieri e gli sterrati più elitari, con il tempo ha però svelato due controindicazioni. E’ vero, infatti, che sul cemento tutti possono giocare (quasi) a parità di chance. Ma anche che sul cemento tutti finiscono per giocare alla stessa maniera: mestolando dritti e rovesci da fondocampo grazie a corde e racchette sempre più tecnologiche, con indubbio nocumento per lo spettacolo.
Inoltre sul cemento, spalmato per giunta di resine che al caldo si trasformano in paludi letali per le cartillagini, ci si infortuna di più. Saltano le articolazioni e saltano le carriere, come dimostra esemplarmente il caso di Rafael Nadal, tornato alle gare in febbraio dopo l’ennesimo infortunio ai tendini. «Questi campi non fanno bene al corpo – ha ribadito il Nino qualche settimana fa – se vogliamo che i tennisti delle prossime generazioni finiscano la carriera in condizioni fisiche buone, dovremo trovare una soluzione e non continuare a giocare su questa superficie che procura infortuni alle ginocchia, ai piedi, alle caviglie, alla schiena, a tutto. Non lo dico per me, che ormai gioco da tanti anni, ma per chi verrà in futuro».
Non si tratta però solo di un’emergenza sanitaria. Se la terra educa al tocco e alla strategia, e l’erba alle acrobazie sottorete, il cemento tende a omogeneizzare i talenti e a produrre sbadigli. Non a caso la rivalità perfetta fra gli antitetici dioscuri Federer (sette titoli a Wimbledon) e Nadal (sette al Roland Garros) ha fatto vivere al tennis una delle sue tante Età dell’Oro, quella più fisica, ma meno scintillante, fra Djokovic e Murray rischia in futuro di incrinare l’audience. Che fare, quando i due Fenomeni Rafa e Roger appenderanno le rispettive magie al chiodo?
Di modificare la velocità del cemento e la potenza delle racchette per ora non si parla. «Certi campi in resina dei tornei Atp sono troppo lenti rispetto al passato – ammette Gianfranco Zanola, esperto di campi intervistato dal settimanale specializzato Matchpoint – gli scambi non finiscono mai e si va avanti a forza di gran pallate da fondocampo. Qualche giocatore vorrebbe sì cambiare, per interpretare il tennis in maniera diversa, ma a molti altri va bene così». Ripopolare il torneo di argilla e fili di segale, estremizzando di nuovo gli stili, potrebbe convincere i maestri a rinunciare al Credo Unico del rovescio bimane, tornando a puntare sulla fantasia e magari rispolverando i rudimenti del dimenticato serve-and-volley. Qualche altro segnale c’è. Il defunto torneo californiano di San Josè risorgerà l’anno prossimo sulla terra di Rio de Janeiro (anche se va detto Acapulco compierà un percorso inverso), e l’Australia, superpotenza decaduta, per recuperare il terreno perduto ha deciso di buttarsi sul rosso costruendo fra l’altro otto campi “lenti” all’interno di Melbourne Park, sede dello Slam australe.
«La terra ti dà l’opportunità di imparare un tennis sia offensivo che difensivo – sostiene l’ex n.1 del doppio Todd Woodbridge – e in più consente ai giovani di allenare il corpo senza troppi traumi». Un altro ex-campione aussie, Paul McNamee, per anni direttore proprio degli Australian Open, quest’anno ha riproposto l’idea di cambiare la superficie tradizionalmente “hard” del Masters 1000 di Miami in “har-tru”, ovvero la terra verde americana, per rilanciare il torneo della Florida trasformandolo in ricco preludio alla stagione europea sulla terra battuta. Lo spostamento di Wimbledon aumenterà le settimane sull’erba, risuscitando attorno ai Championships quella serra verde che pareva destinata all’estinzione, e così da febbraio a luglio, magari ad agosto, si potrebbe tornare a giocare come un tempo su superfici naturali. La tradizione, a volte, può essere una cura insospettabile per mali della modernità.
Rispondi