Il continente Parisse

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Sergio Parisse non è solo un rugbista, è un continente. Vasto, complesso, contraddittorio, entusiasmante e inesauribile, comunque difficile da far stare tutto in quelle piccole mappe tascabili che sono gli articoli di un giornale o di una rivista. Puoi scattargli una foto e farne una cartolina, nei giorni dopo la conclusione del Sei Nazioni anche la stampa estera ce ne ha spedite di coloratissime. «E’ una gioia vederlo giocare», ha scritto Espn Scrum, intitolando il pezzo Peerless Parisse, ineguagliabile Parisse. «Senza dubbio è stato lui il migliore del torneo».

Opinione condivisa dal venerabile Daily Telegraph, che ha speso paragoni importanti («proprio come Messi e Ronaldo non deludono mai nel calcio, così fa Parisse nel rugby»), e dall’autorevole Guardian: «ragazzi, ma quanto è forte Parisse con la palla in mano? Nessun altro capitano del Sei Nazioni ha avuto un’influenza così costante sulla sua squadra». Verissimo: controfirmiamo. Ma Parisse è un giocatore talmente importante per l’Italia – e lo si è visto nel match con il Galles, dove la sua assenza ha aperto falle tettoniche, o nei 10 minuti in cui è rimasto fuori con l’Irlanda per un giallo che ci è costato nove punti e qualche centinaio di extrasistole – che merita un’analisi più complessa.

Per tentarla si può partire dalle parole illuminanti di AlessandroZanni, sicuramente uno che è abituato ad osservarlo da vicino. «Sergio è un giocatore straordinario, non lo scopriamo certo adesso», ha detto il man of the match dell’Olimpico. «Ed è talmente forte che può fare cose semplici ma anche molto difficili, proprio perché ha una classe immensa e non è sempre banale stargli dietro».

Abbiamo tutti negli occhi certi break del capitano, le “parissine” giocate sottomano che possono innescare caroselli da sollucchero – come quello imbastito con Zanni e Furno contro l’Irlanda – oppure disorientare chi non possiede i suoi stessi “skill” da fenomeno. Contro la Francia, l’Irlanda e l’Inghilterra Sergio ha edificato ideali monumenti al ruolo di numero 8, chi sostiene che potrebbe giocare senza difficoltà con la maglia degli All Blacks non esagera affatto.

Eppure a volte l’abbiamo visto incaponirsi in assalti solitari, infilarsi per eccesso di generosità in iniziative senza uscita; o cedere al suo temperamento latino, impulsivo, torrentizio. Gli arbitri gli rimproverano di chiacchierare troppo in campo e del resto è stato lui stesso a riconoscerlo (pagherà dazio con qualche giorno di “servizi sociali” nelle banlieu parigine, e sarebbe bellissimo ricavare un reportage dall’esperienza), come ha pure ha ammesso – con onestà – di essersi fatto scappare istintivamente il piedino nello sgambetto che gli ha procurato il giallo all’Olimpico contro l’Irlanda.

La verità è che Parisse è incontenibile: anche per se stesso. Riesce a fare talmente tante cose, e ad un livello così alto, che viene spontaneo chiedergli di tutto, a volte forse troppo. Lo scotto è rappresentato da qualche decisione affrettata, da qualche – raro – match non decifrato nel modo più lucido (quello di quest’anno con la Scozia, ad esempio). In attesa, e nella speranza, che arrivino altri campioni come lui, è però un destino a cui per il momento né lui né l’Italia possono sottrarsi.

E in fondo è un prezzo che paghiamo volentieri: il suo talento, le sue intuizioni da fuoriclasse hanno mostrato in maniera lampante ad una nazionale finalmente sciolta da ogni inferiority complex dalla lezione di Brunel che anche un’italiano può essere il migliore del mondo, la pietra di paragone per chi gioca in quel ruolo. Nell’ultimo Sei Nazioni ci sono stati momenti in cui lo abbiamo visto caricarsi letteralmente la squadra sulle spalle e trascinarla avanti, issarla in quota, e ripartire lasciando già i chiodi piantati nella roccia.

E’ stato Nick Mallett a volerlo capitano, ma la sintonia con Brunel è stata immediata. L’armonia con cui sono stati gestiti i pochi giorni fra il match con l’Inghilterra e quelli con l’Irlanda ne è una prova. «Abbiamo chiesto a Jacques un giorno in più di riposo, perché eravamo stanchi – ha raccontato Sergio a Roma – e in cambio gli abbiamo promesso una grande partita». Detto fatto. E’ lo specchio di quello che ha scritto il Telegraph: Parisse può anche sbagliare una partita, ma non ti tradisce mai.

Può magari impermalosirsi, incupirsi per una critica che non condivide, che non sente giusta, ma è anche capace di restare un’ora al telefono, dall’altro capo dell’Atlantico, per spiegarti la sua visione del rugby. Anche il suo carattere del resto è un paesaggio inevitabilmente composito, visto che Sergio  è nato e cresciuto in Argentina, con cromosomi tutti italiani, e da anni vive e si guadagna lo stipendio in Francia, accanto ad una (bellissima) moglie francese. Ha dovuto imparare a maneggiare linguaggi diversi, sia in campo sia nella vita, ciò non toglie che l’idea più bizzarra – per nostra fortuna evaporata in fretta – è stata pensare che Sergio avrebbe potuto insultare un arbitro in inglese.

Due dei cardini su cui gira il progetto di Brunel, Ambizione ed Umiltà  – l’umiltà che serve a non sedersi, a non accontentarsi anche quando tutto il mondo accende ceri al tuo genio – sono doti che il capitano possiede in dosi generosi. Forse quello che ancora gli manca è il perfetto «equilibre», la pozione magica del druido Brunel, il graal a cui persino i cavalieri più illuminati, in fondo, tendono come ad un ideale difficilmente raggiungibile. La realtà è sempre più sfuggente, più complessa, contraddittoria, varia di quanto ci aspettiamo. E nel futuro dell’Italia c’è sicuramente ancora molto del continenete Parisse da esplorare.

 

Comments

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