Mennea, quel dito alzato che ha guidato una generazione

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Da piccolo, quando correvo in strada, se arrivavo primo davanti agli amici alzavo il dito indice al cielo.

In televisione avevo visto un italiano magro, con la faccia disassata, lo sguardo dolente e ironico, un po’ da Pulcinella, un po’ da Eduardo e da Totò, fare quel gesto ogni volta che tagliava il traguardo e si lasciava dietro americani, caraibici, o anche russi ipermuscolati, potenti e belli come dei.

Pietro Paolo Mennea, la Freccia del Sud, il Barletta Express non era né bello né neanche tanto simpatico, a pensarci bene: quel ditino alzato nell’aria con un filo di arroganza serviva a dire: signori, il primo sono io, vedete? Ricordatevelo. Io che vengo dal sud dell’Italia, che non ho le strutture di un campus americano per allenarmi, che non ho scienziati e soldoni che mi spingono. Io che mi alleno come un forzato dell’atletica seguendo le tabelle feroci e geniali del dottor Vittori, un ayatollah nostrano, un lucido ideologo del lavoro duro e puro, ma razionale, certificato, vincente in una semplice equazione: fatica+intelligenza+onestà = vittoria.

Erano anni plumbei per l’Italia, bui per molto del mondo. Le brigate rosse, il terrorismo palestinese, la guerra fredda che congelava ancora i rapporti tra Est e Ovest, il Vietnam. Mennea era figlio di un sarto e di una casalinga, un ragazzino magro, nervoso, con occhi da Masaniello che a Barletta  scoprì di essere abitato dalla velocità sfidando a piedi le Porsche e le Alfa Romeo: sui 50 metri vinceva lui, e con i soldi della scommessa si guadagnava le lire necessarie a pagare il biglietto del cinema, o un panino al bar. Si  rivelò al mondo ai Giochi di Monaco del ’72, terzo sui 200 metri dietro Larry Black e Valery Borzov, il russo volante. A Montreal, quattro anni dopo, quando davanti ad un televisore ancora in bianco e nero lo vidi arrivare quarto dietro dietro l’oro Don Quarrie, mi rattristai. Perché Mennea era l’Italia stortignaccola, bruttarella, ma tosta, orgogliosa, onesta, grintosa, capace di prolungare  dentro un decennio oscuro il volo aggraziato di Berruti che aveva inaugurato il boom economico ai Giochi di Roma.  Dioniso, contro Apollo. Vederlo perdere dilaniava.

Così quando fra il 79’ e l’80 arrivarono i grandi trionfi di Pietruzzo, il record mondiale sui 200 a Città del Messico, quel 19”72 che imparari a recitare a memoria e che sarebbe resistito incredibilmente fino al 1996, 17 anni filati prima del bang di Michael Johnson; e poi l’oro sempre sui 200 metri a Mosca, con quella incredibile finale che pareva persa contro la carica da toro gallese di Allan Wells, e che Mennea aveva recuperato uscito dalla curva, rischiando alla fine di sciuparla con un’esultanza precoce, un filo sbruffona, molto italiana – quando arrivarono quei successi saltai da solo nella mia camera, davanti alla televisione. Sentivo di aver vinto anch’io. Poi sono venuti altri successi, altre polemiche – quella contro il doping portata avanti sempre a suo modo, con parole e azioni sempre provocatorie, con quella voce roca aggrovigliata, con quelle accuse sputate contro il mondo ma sempre fissando gli avversari in faccia, a schiena dritta.

Quattro Olimpiadi sempre in finale. Dopo la quinta, quella di Seul, la più politica e corrusca,  l’avvocato Mennea si era trasformato in politico, in qualche modo aveva rallentato. Si era addolcito, imbiancato nei capelli. Meno spigoli, non meno principi. Ha scritto libri, fatto sentire ogni tanto la sua voce afona e insieme querula, da grillo parlante. Ma anche adesso che i ricordi di quell’Italia anni ’70, brutta e sporca, a volte cattiva e a volte splendida, tormentata, fatta di partite di calcio giocate la domenica mattina in strade ancora non ingombre di automobili; di orecchie appoggiate a radioline, di canottiere e magliette attilatissime stirate su toraci ancora non gonfiati da aminoacidi e steroidi; adesso che quei ricordi sono diventati un’Argentina del cuore, un paese lontano e un po’ leggendario in cui non abiteremo mai più; adesso che Mennea – primo e grande idolo sportivo di una generazione non ancora soffocata dal moloch del calcio – se ne è andato per sempre, avrei voglia di scendere in strada e correre più forte possibile. E alzarlo ancora quel dito, beffardo e irrispettoso, verso il cielo.

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  1. Commovente.

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