L’Irlanda ha due religioni in tutto, ma nel rugby una sola squadra. E un unico dio: “In BOD we trust”, c’è scritto sulle t-shirt dei fedeli. BOD, acronimo che fa rima con God, il collega celeste, e sta per Brian O’ Driscoll, da ormai nove anni il capitano dei Verdi. Cattolico, (“ma non religioso”), adorato con identico fervore nella papista Dublino come nell’orangista Belfast, anche perché, da intelligente divinità bipartisan, O’Driscoll sa e vuole parlare di tutto, «ma non di politica». Saggiamente
Dopo l’impresa sfiorata a Twickenham oggi – vigilia di San Patrizio – all’Olimpico l’Italia può sperare di arrivare terza nel Sei Nazioni, e sarebbe il miglior piazzamento di sempre dopo i quinti posti del 2003, 2004 e 2012, e il quarto del 2007. Deve battere l’Irlanda, impresa mai riuscita nel Torneo, e sperare che la Francia sommerga di punti la Scozia, mentre una sconfitta bagnata da un pareggio o da una vittoria dei galletti significherebbe sesto posto per gli azzurri (ma non il Cucchiaio di legno, che secondo l’interpretazione ortodossa tocca solo a chi perde sempre).
Contro i Verdi massacrati dagli infortuni il colpaccio non è impossibile, ma fra il dire e il fare c’è di mezzo lui, O’Driscoll, uno dei più grandi centri della storia del rugby che oggi, quasi sicuramente, giocherà la sua ultima partita nel Sei Nazioni.
L’Italia celebra Lo Cicero, che si ritira dal rugby dopo 103 caps (record) e punta a partecipare ai Giochi di Rio come velista, ma Andrea è un uomo, Brian Gearóid Ó hEidirsceoil, come si scrive il suo nome in gaelico, una creatura rugbisticamente celestiale.
Carismatico, ma non presuntuoso: «la prima volta che lo incontrai, nel 2002 a Limerick – ha scritto l’inviato dell’Independent – rimasi sconcertato. Mai mi ero sentito, davanti ad un ragazzo tanto più giovane di me, il “junior” della situazione. C’era come un’aura attorno a lui: emanava autorità, sicurezza, e un’enorme autostima, priva però della minima traccia di arroganza». Divinamente umile, insomma, e umilmente feroce, BOD è stato capace di reincarnarsi almeno un paio di volte in carriera, rinascendo dalle ceneri di infortuni anche seri; ma possiede abbastanza ironia da ridersela dei paragoni con l’Altissimo: «Oh, il soprannome. Ma mi chiamano così solo in Inghilterra. Anzi, solo su Sky Sport».
La verità è che O’Driscoll sa davvero come si gioca in Paradiso. Will Carling, l’ex capitano dell’Inghilterra e filarino di Lady D., che lo ha infilato nella sua personalissima top-ten di tutti i tempi, gli ha cucito addosso il Bignami del centro perfetto: «Ritmo, potenza, velocità, talento sia in attacco sia in difesa. O’Driscoll possiede una capacità di sorprendere le difese aperte che gli altri rugbisti nemmeno si sognano. Con le sue finte, i suoi cambi di velocità, la sua posizione di corsa compatta è difficilissimo da fermare». E noi ne sappiamo qualcosa.
Dopo il disastroso Mondiale del 2007 («Forse l’unico ricordo che vorrei veramente cancellare»), a 28 anni, molti lo davano in via di pensionamento insieme ad una squadra apparentemente logorata e incapace di vincere qualcosa di veramente importante. Dopo un paio di stagioni sbiadite, invece, fra 2008 e 2009 il dio dei centri è tornato a zigzagare sulle malinconie altrui, a passare rasente l’erba e attraverso i muri di carne. Da capitano dell’Irlanda si è preso il primo Grande Slam dopo 61 anni di doloroso digiuno. Da “mahatma” del Leinster ha vinto, magnifico 30enne, la sua prima Heineken Cup. Con i Lions ha firmato un tour in Sud Africa già accolto nella leggenda. Nel 2010 ha perso il titolo di giocatore dell’anno dell’Irb per un solo voto in meno di Richie McCaw, ma uno dei giurati ha ammesso: «Se avessi saputo che dipendeva da me, avrei votato per lui».
Trentaquattro anni, 125 presenze e 46 mete in nazionale, 26 nel Sei Nazioni (record assoluto). In nazionale maggiore ci arrivò a 20 anni, nel 1999, quando ancora a Limerick non giocava fra i grandi, dopo aver vinto il Mondiale fra gli u.19. Al mondo si annunciò definitivamente nel 2001 con una meta leggendaria con i Lions, piazzata nel suo primo tour in Australia, e che i tifosi dei Leoni celebrarono sugli spalti parodiando la più famosa delle canzoni aussie: «Walzing O’Driscoll, waltzing, O’Driscoll…». Quattro anni dopo, in Nuova Zelanda, dei Leoni britannici era diventato il capitano, ma Tana Umaga e Kevin Mealamu pensarono bene di farlo fuori dal tour dopo una manciata di secondi del match inaugurale, il 25 agosto a Cristcurch. Uno spear tackle da brivido: collo e vertebre salve per miracolo, ma spalla lussata e lunghi mesi di recupero lontano dai campi. Rabbia? Minacce di vendetta? Macchè. «A bit disappointing», un filo di disappunto, fu il commento.
Del resto una ruvida nonchalance, l’assoluta naturalezza, l’abilità – non priva di tigna, intendiamoci – nel rendere possibili, apparentemente banali, soluzioni impraticabili ai comuni mortali, sono le autentiche griffe di O’Driscoll.
Per rinfrescarsi la memoria basta un giro su YouTube. Mete trascinanti, ai Wasp come all’Australia, gimcane e sfondamenti tutte fosforo e dinamismo, a mezzo fra il pitbull e il levriero, fra il running-back e il giocoliere. Con tanto di autopassaggi capaci di imbambolare mezza difesa e doppi “sombreri” confezionati con la tomaia per mandare a farfalle il povero estremo. Velocità e talento: «Contano tutti e due, ma il talento viene prima. Correre veloce è importante, ma a me piace pensare di essere più bravo che svelto». O’Driscoll sa «annusare l’odore di una possibile meta come un animale nella foresta». Lo disse una volta Bill McLaren, il leggendario telecronista della BBC, a proposito di un altro leggendario centro irlandese, Mike Gibson. Un paragone che decisamente non stona.
O’ Connell fra l’altro ha ricchissimi cromosomi ovali. Suo zio John ha vestito per 26 volte la maglia dei verdi, e quella dei Lions nel 1980 e nel’83; anche suo babbo Franck e l’altro zio Barry hanno giocato per la nazionale irlandese. Prima di approdare al Blackrock College di Dublino, però, il ragazzino biondo di Clontarf al rugby non ci pensava neppure. Proprio come quell’altro formidabile sprinter di Bryan Habana adorava il calcio, anzi delirava e delira ancora per il Manchester United. Più ancora che dei Red Devils da cucciolo Brian era un tifoso sfegatato del loro centravanti di allora, Mark Hughes: «mi faceva impazzire il suo carattere, la sua aggressività, e il fatto che non riusciva semplicemente a segnare dei gol normali». Capito da dove arrivano certe genialate?
Un mago che incanta gli uomini e fa sospirare le donne. O’Driscoll non è leccato come Gavin Henson o Dan Carter, ma nel 2004 è stato eletto uomo più sexy d’Irlanda: «Quando me lo dissero ci feci su una risata. Non sono però contrario a curare il mio look, ormai è una cosa normale anche per gli uomini, no?», ha spiegato tempo fa, ammettendo anche serenamente di usare, insieme a tutta la nazionale, la ginnastica Pilates per prevenire gli infortuni: «roba da signorine? Niente affatto. Ma se qualcuno vuole pensarlo, che faccia pure, non mi sento minacciato nella mia mascolinità».
Anche perché a confermare le sue doti virili ci sono le love story glamour, dalla ex fidanzata modella Glenda Pines alla attuale moglie, l’attrice tv Amy Huberman, famosissima in Irlanda, alla quale si è dichiarato in maniera straromantica, facendole trovare in giardino una decorazione floreale che recitava: «Mi vuoi sposare?». I veri punti deboli del fenomeno però sono la cioccolata («Almeno una volta al giorno devo mangiarne un po’»), la cucina di mammà, e un paio di “Corona” al pub con gli amici: «se sei un giocatore professionista devi regolarti, ma ci sono periodi dell’anno in cui puoi permetterti qualcosa. E poi sono dell’idea che la vita va vissuta, non bisogna farsi ossessionare dal salutismo e dalle diete». Equilibrio, e saggezza acquisita con la maturità, e riassunta nella sua frase più famosa, misto di Confucio ed Eric Cantona, data in pasta ai giornalisti che prima di un match con l’Inghilterra gli chiedevano un parere sull’operato da allenatore del suo ex compagno fra i Lions, Martin Johnston: «Conoscenza è sapere che il pomodoro è un frutto. Saggezza è non metterlo in un insalata di frutta».
A 34 anni O’ Driscoll non si sente più il “pin-up” dello sport irlandese, ma quando sorride storcendo un po’ la bocca sopra il mascellone squadrato e addolcendo lo sguardo, azzurro e luminoso come certi cieli primaverili del suo Paese, le ragazzine di Limerick e delle altre contee si sentono ancora mancare. «Naaa, omai io sono un vecchietto, roba buona per incartarci il fish and chips», si schermisce. «L’idolo delle donne adesso è Rob Kearney (l’ala del Leinster, ndr). A me adesso interessa fare colpo solo con il mio rugby».
Ha subito mille infortuni, l’ultimo domenica scorsa, contro la Francia. E’ voluto restare in campo nonostante un trauma cranico, una gamba acciaccata, l’orecchio sbrindellato e le lacrime in tribuna Amy Huberman, che da poco gli ha regalato una figlia. «Leading by example», guidare con l’esempio, è la didascalia di tutte le sue foto. In settimana ha passato i test neurologici, oggi uscirà sul prato dell’Olimpico con il suo passo fulmineo e compatto, a metà fra Zeus e Mercurio. Forse non è più il tempo in cui, come sosteneva Carling, «senza O’Driscoll l’Irlanda vale la metà». Ma occhio a sottovalutarlo. BOD, da buon irlandese, è abituato a santificare le feste.
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