Per concepire due mete come quelle che Luciano Orquera ha prima cesellato e poi lasciato smerigliare a Parisse e a Castrogiovanni contro la Francia occorre davvero «la astucia de un bandido», come ha scritto qualcuno in Argentina dopo quel match.
Colpo d’occhio, coraggio, tecnica. Poca paura. «Dopo il buco della prima meta ho pensato solo a correre più veloce che potevo; quando ho visto Sergio vicino mi sono tranquillizzato: il più era fatto…», mi ha raccontato Luciano in questa intervista che appare sull’ultimo numero del mensile All Rugby.
Nella sceneggiatura che Jacques Brunel ha pensato per l’Italia – un po’ stropicciata dalla figuraccia di Edimburgo – Orquera dovrebbe essere quello che Eli Wallach era per Sergio Leone. Il buono (ehm, ehm..) è Parisse, i brutti Castro & Co., lì sotto in prima linea. Il ruolo del cattivo, con quel volto molto latino, il fisico minuto e svelto, gli occhietti prensili, tocca a lui. Ovviamente si parla di cattiveria agonistica, perché Lucianino fuori e dentro il campo è un atleta correttissimo e un ragazzo adorabile.
Con i suoi 171 centimetri, i suoi 80 chili messi su a forza di palestra e dieta accurata («anche solo rispetto a sei anni fa il rugby è cambiato, il fisico ora conta tantissimo, ho dovuto adeguarmi negli allenarmi») non può essere una diga, un numero 10 massiccio come piaceva a Nick Mallett. Piuttosto un ingranaggio, una molla, un bilanciere in grado di fornire i giusti tempi al meccanismo più complesso che ha in mente Brunel. Non a caso la parolina magica tanto cara a Jacques l’anti-fatalista, l’occhialuto, taciturno sciamano francese convito che gli azzurri possano giocarsela con tutti liberi da qualsiasi inferiority complex –, il suo matra di una nota (quasi) sola è: “equilibrio”. Una sostanza che miscelata in giuste dosi a quella spezia che si chiama ambizione dovrebbe produrre il filtro magico.
«Mallett era un buon allenatore, uno con carattere, che ci teneva molto alla squadra», dice Lucianino, che vista la stazza non imponente e le soluzioni pepate che a volte riesce a trovare, un po’ la Litizzetto la ricorda. «Brunel però ci ha dato più fiducia, più tranquillità, più libertà nel gioco. Ci ha convinti che possiamo battercela alla pari con chiunque. Era una convinzione che mancava ad alcuni di noi, ed è stata la chiave per sbloccarsi».
Il risultato sono le tre partite da favola o quasi contro All Blacks, Australia e Francia, poi il tonfo di Edimburgo. Orquera ha incantato nelle giornate di festa, quando dietro una mischia che avanzava è riuscito a usare il fosforo e la tecnica per intagliare il suo rugby da ebanista, più virtuoso che tattico. Ha deluso nel giorno in cui l’Italia è andata sotto contro la tigna scozzese nei raggruppamenti. E’ passato da eroe a villano, con la consueta disinvoltura italica nell’adattare la fede alla contingenza.
«Per tre partite abbiamo giocato alla grande, contro la Scozia ancora non ho capito cosa è successo», ammette. «Però è giusto dire che abbiamo giocato male, l’autocritica serve sempre (voilà, l’equilibre, ndr…).Forse c’erano troppe aspettative, si parlava di fare la storia. Ci siamo caricati di una pressione enorme, ed è andato tutto male. So di aver sbagliato la partita, di aver fatto anche delle scelte poco avvedute. Se ci ripenso mi vengono in mente anche il palo preso all’inizio, un calcio stoppato dagli scozzesi che poteva trasformarsi in una bella idea, un passaggio che avrebbe potuto liberarci in meta su quell’intercetto. C’è stata anche un po’ di sfortuna, ma è anche vero che il limite dell’Italia di oggi è proprio la poca abitudine cambiare il piano di gioco quando ti trovi davanti un avversario capace di farti male nei raggruppamenti. Edimburgo ci deve servire da lezione».
Luciano è nato a Cordoba, ha iniziato a giocare a rugby a quattro appena, trascinato dal fratello, dagli amici del fratello; dagli amici degli amici degli che nel quartiere di Bajo Palermo avevano tutti addosso il sacro fuoco ovale. Non ha avuto un vero idolo, per capire come deve giocare un numero 10 ha preso un po’ di qua e un po’ di là. «Wilkinson, Contepomi, Carlos Spencer: non esiste un solo modo di essere apertura. Io sono piccolo, non mi tiro indietro quando si tratta di placcare, anzi; ma certo gli impatti li sento più io di Masi. Quello che conta però nel mio ruolo è saper far girare la squadra e mantenere la mente fredda al momento di calciare, nei momenti chiave del match. E’ quello che ti fa fare il salto di qualità». Equilibrio, insomma. E molta applicazione.
«Da bambino mi piaceva anche il calcio, anzi per un anno ho piantato lì con il rugby per fare solo il centrocampista. Ero bravo, un po’ dribblomane magari, con il mito di Maradona e Riquelme. Non mi piaceva tirare le punizioni quando c’era il portiere, invece a piazzare fra i pali, con gli amici, stavo delle ore tutti i pomeriggi. Ecco, forse è un po’ questo che manca al rugby all’Italia, la passione per un certo tipo di allenamento, il modo di vivere il rugby».
Una questione sociale, antropologica. «In Argentina è vero che il rugby è uno sport da rugby, ma ci sono anche tante squadre fatte di ragazzi che hanno un livello sociale ed economico medio e basso. In Italia sono arrivato nel 2002, mi sono trovato benissimo a Mirano, poi a Padova, ma quando sono andato in Francia, ad Auch e poi a Brive, ho trovato una nazione dove il rugby è una religione diffusa, sia nella città che ha una squadra in Top-14 sia in quella che al massimo gioca fra i dilettanti. In Italia il rugby è seguito a Treviso e in altre tre o quattro posti. E’ vero che l’entusiamo è molto cresciuto, che riempire l’Olimpico è entusiasmante, ti fa sentire sullo stesso livello delle nazioni che giocano in stadi come Murrayfield, Twickenham o il Millennium di Cardiff. Però i risultati da anni sono sempre gli stessi, non nascondiamocelo». Serve un cambio di passo, un apriscatole, un’idea. «La Celtic è importante, rispetto a tre anni fa vedo giovani in grado di arrivare più in fretta a livello internazionale. E la politica della Fir di spingere per avere aperture e numeri 9 è giusta. C’è Paolo Buso, che promette bene, alle Zebre anche Alberto Chiesa sta crescendo. Serve tempo, anche se la Celtic è un acceleratore importante».
BriveAl futuro ci avviciniamo a tentoni, il presente resta in mano comunque straniere, quelle di Orquera, o quelle di Burton. «Io sono italiano da parte materna, i genitori di mia madre Ana Lisa venivano dalla provincia di Novara. Non posso dire di non essere argentino, ma qui sono a arrivato a 19 anni e mi sono trovato sempre bene. Anche la Francia mi ha aiutato a crescere come persona, diciamo che sono un mix. Dopo il rugby mi piacerebbe fare qualcosa in campo immobiliare, ma onestamente non so se sarà qui, in Argentina, in Francia. O magari in Spagna».
Questo Sei Nazioni per Luciano sarà comunque particolare, visto che l’11 marzo, il giorno dopo Inghilterra-Italia, dovrebbe nascere la figlia che sta aspettando da Alejandra, la sua fidanzata. «Sarebbe bello festeggiare con una vittoria, no? Io penso che se usciamo dal campo mentalemente come abbiamo fatto contro la Scozia possiamo rimediare altre figuracce, mentre se restiamo concentrati non partiamo battuti contro nessuno. Anche contro Inghilterra e Irlanda possiamo fare una grande partita, ne sono sicuri». Sapersi dopo la sconfitta, lo diceva Vince Lombardi, in fondo è la vera stimmata del campione. «E’ capitato anche a me di perdere conoscenza dopo un placcaggio, contro l’Irlanda nel Mondiale e poi contro gli All Blacks. In quei casi non senti male, solo un po’ di confusione. Ma dopo non ti ricordi molto, e ricominci a giocare». L’equilibrio, in fondo, è fatto anche di una dose di incoscienza.
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