L’Inghilterra del rugby, un sistema di vita

Inghilterra foto

Avviso a tutti gli anglofobi: se amate il rugby, anzi, se amate lo sport, non potete non dirvi – crocianamente – almeno un po’ inglesi. Che vi piaccia o no sono stati loro a forgiare lo sport moderno, a distillare l’essenza delle varie discipline filtrando da un guazzabuglio di attività ludiche, di loisir, di passatempi da sagra e da palazzo il succo dell’agonismo come lo intendiamo oggi. Rugby compreso.
Accadde fra la fine del ‘700 e la seconda metà dell’800, sulla spinta di sommovimenti sociali, politici e tecnologici – come la vulcanizzazione del caucciù che rese più igienica la confezione dei palloni da gioco, rotondi e ovali che fossero – innescati dalla rivoluzione industriale e destinati a sfociare in quell’evo insieme arcadico e ferrigno, educatissimo e feroce, che fu l’epoca Vittoriana. I telai, la ferrovia, i commerci con le colonie, il maturare del capitalismo. Benjamin Disraeli e Jack lo Squartatore, Charles Dickens e William Webb Ellis: tutta roba loro, degli inglesi.
Lo sport, anzi il disport, che aveva emesso i suoi primi vagiti sotto forma di sfida e scommessa – su chi riuscisse ad arrivare più in fretta da Londra a York, sul valletto più rapido a seguire la carrozza del padrone… – nel giro di poco meno di un secolo divenne una scuola di vita e orgia di codici.
Le London Prize Ring Rules, le regole che diedero una prima parvenza di umanità alla boxe, stabilendo che il poveraccio che si trovava al tappeto da più di 30 secondi era da considerare sconfitto, prima ancora che morto, risalgono al 1743, mentre al 1775 data la stabilizzazione del cricket. Nel 1829 Oxford e Cambridge si sfidarono per la prima volta sul Tamigi a forza di remi, e gli scozzesi – che nel 1872 sarebbero diventati i primi avversari ufficiali degli odiati inglesi nel rugby – inaugurarono nel 1854 il primo vero e proprio campo di golf a St.Andrews. Le Sheffield Rules, che fondarono il calcio ancora prima della nascita della Football Association nel 1863, furono scritte da Williams Prest nel 1858. Nel 1866 il maggiore Harry Gem e il suo amico J.B. Perera in un giardino di Edgbaston inventarono un gioco battezzato prima Pelota, poi Lawn Rackets, e che Walter Clopton Wingfield rese famoso nel 1875 chiudendolo in una scatola e commercializzandolo sotto il nome di Sphairistikè. Oggi lo chiamiamo tennis.
E il rugby? Be’, la leggenda, la teoria del Big Bang applicata all’ovale probabilmente la conoscete. Nel 1823, correndo sul prato della Rugby School quel dispettoso di William Webb Ellis avrebbe raccolto la palla al volo e, invece di giocarla al piede come prevedevano le instabili consuetudini del tempo, se lo sarebbe tenuto sotto il braccio correndo libero verso la meta avversaria e sdoganando così un nuovo orizzonte. Webb era un inglese, figlio di un ufficiale dei dragoni, frequentatore a Rugby di una delle famose Public Schools, le fucine della classe dirigente inglese che rappresentarono anche l’autentica incubatrice dello sport. Pochi anni più tardi il più famoso rettore di Rugby, Thomas Arnold, avrebbe teorizzato che l’educazione dei giovani inglesi doveva essere una forma di «muscolar Christianity», un cristianesimo atletico basato su tre pilastri: una chiesa, un cappellano e un meraviglioso gioco chiamato rugby. Un efficace antidoto «all’immoralità e all’indisciplina», o se preferite, un ottimo modo di tenere i ragazzi impegnati e lontani dalle tentazioni.

La più pericolosa fra quelle tentazioni, per gli altolocati pionieri della palla ovale, nei decenni successivi divenne il professionismo. Mentre infatti a sud lo sport era un passatempo violento ma simile, è stato scritto, «ad una stretta di mano fra massoni, ad un tacito strumento per stringere rapporti sociali», nel nord delle industrie e delle miniere rischiava di trasformarsi in una professione. Un gioco in cui contava vincere sul campo, non partecipare ad utili futuri, strutturato attorno alla chiesa, alla fabbrica e al pub. Chi vinceva portava a casa una botte di birra, un cosciotto di montone, nello Yorkshire magari anche un vestito buono. Premi da pochi scellini, ma sempre un compenso che per quelli che Will Carling un secolo dopo avrebbe definito «old farts», vecchi scoreggioni, era moneta del diavolo.
Fra i tanti custodi di una Legge che nel frattempo si era andata definendo, il più integralista di tutti era il reverendo Frank Marshall, un Torquemada in clergyman che arbitrava fumando il sigaro e convocava di fronte ad una sorta di privata inquisizione chiunque fosse sospetto di “professionismo”. Lo sport, era il suo credo, è una faccenda riservata solo a chi può permettersi di farlo per divertimento.
Nel 1871, formata da venti club tutti inglesi, era nata la RFU, la Rugby Football Union, e nell’86, quando venne alla luce la federazione internazionale, gli inglesi si rifiutarono di partecipare ad una associazione nella quale il loro peso sarebbe stato uguale a quello di scozzesi, irlandesi e gallesi. Nel 1890 ottennero di avere da soli gli stessi rappresentanti delle nazioni celtiche e nel ’93 Marshall & Co. fecero anche in modo che la proposta – avanzata dai nordici club dello Yorkshire – di ammettere pagamenti per i giocatori, fosse respinta nello storico meeting del Westminster Palace. Una decisione che avrebbe portato, nel 1895, alla grande scissione decisa al George Hotel di Huddersfield, con la nascita della Northern Union, e undici anni più tardi al battesimo dell’eretico Rugby“a tredici degli “sporchi” professionisti.
Il rugby nel frattempo era stato reso popolare da un bestseller dell’epoca, il Tom Brown’s Schooldays, che narrava degli anni spensierati passati a Rugby. Attenzione però: nel volume di Webb Elllis e del suo gesto rivoluzionario non c’era traccia. Il primo a citarlo come fondatore del gioco – nel 1876 e cioè quattro anni dopo la morte di Webb Ellis stesso… – fu Matthew Bloxam, un altro allievo di Rugby che aveva però lasciato la scuola nel 1821 e quindi non era stato testimone oculare dell’Evento. Ancora nel 1840, peraltro, era possibile che in un match di proto-rugby gli Old Rugbeians di Cambridge lasciassero di stucco i rivali Old Etonians azzardandosi a passarsi l’ovale con le mani. «Webb Ellis era un ottimo giocatore di cricket, ma quando sTwickenham, i trattava di football, be’, era parecchio scorretto», sostenne Thomas Harris, l’unico che si ricordasse del Fondatore alla fine degli anni 70 del XIX secolo, quando gli Old Rugbeians decisero di investigare sulla reale origine del gioco. Neppure il reverendo Marshall, nella prima vera storia del rugby (Football – the Rugby Game) pubblicata del 1892, si sognò di citare anche solo una volta l’Inventore. Webb Ellis, a cui oggi è intitolata la Coppa del Mondo, del resto una volta uscito da Rugby non aveva più toccato una palla in vita sua. Era insomma il patriarca perfetto, il fondatore ideale: di buona famiglia, disinteressato e individualista, auspicabilmente religioso ma un po’ cialtrone. Decisamente inglese. E soprattutto morto.

«Qui nessuno è benvenuto. Lo stadio è il nostro giardino. Chiunque venga a giocare da noi deve subire il fascino di questo luogo». Le parole sono di Lawrence Dallaglio, uno dei grandi capitani dell’Inghilterra. Il giardino – c’è sempre un giardino alla base dello sport inglese, da Wembley a Wimbledon, da The Oval ad Ascot – è ovviamente Twickenham.
La fortezza dove, come sostengono i francesi, «appena entri sei già sotto di dieci punti». Il luogo da dove, dopo l’epoca dei pionieri vittoriani, il rugby della middle-class edoardiana partì alla conquista del mondo. L’inaugurazione dell’ex campo di cavoli il 10 ottobre 1909, con il match vinto dagli Harlequins 14-10 su Richmond, segnò la fine dellla peggiore epoca del rugby inglese, schiacciato dai nemici gallesi e scozzesi. Il torneo che oggi chiamiamo Sei Nazioni gli inglesi lo avevano vinto quattro volte di fila fra il 1882, l’anno di nascita, e l’86, ma dopo il ’92 erano state solo batoste. Twickenham, il nucleo di tutto ciò che aveano sognato per trent’anni, fece il miracolo: appena prima dello scoppio della Grande Guerra gli uomini con la divisa bianca e la rosa dei Lancaster cucita sul petto tornarono a prendersi il Five Nation (nel 1910 la Francia era stata Calcutta Cup, Chris Ashton, ammessa per la prima volta) per tre anni di fila.
Gli eroi di una generazione che sarebbe passata direttamente dalle gioie campi di gioco alla tragedia dei campi di battaglia furono Adrian Stoop e Ronald Poulton-Palmer, alfieri di un rugby nuovo per l’Inghilterra, fatto di precisione, movimento e velocità. Stoob con gli Harlequins disegnò la scienza del passaggio: «correre in parallelo a chi deve ricevere il passaggio, lanciare la palla in orizzontale, senza effetto, e con una estremità ben rivolta a chi riceve»). Poulton-Palmer nel 1913 firmò la terza Triple Crown consecutiva a Inverleith, contro la Scozia, nell’ultima Calcutta Cup prima della Grande Guerra. Dei 30 giocatori in campo quel giorno 11 sarebbero morti in Europa, a Ypres, Passchendaele o sulla Somme. Anche Pulton, diventato anche Palmer per una questione di eredità, era un prodotto delle Public Schools: aveva studiato ad Oxford, giocava centro, si arruolò nel quarto battaglione del Royal Berkshire Regiment. Prima di morire ucciso nel maggio 1915 da un cecchino nel bosco di Ploeg Stert, in Belgio, fece in tempo a battere il Galles all’Arms Park e a segnare quattro mete nell’ultimo match in tempo di pace, contro la Francia nel 1914, un impresa pareggiata solo l’anno scorso da Chris Ashton contro l’Italia. «In attacco – è stato scritto di lui – fu il più grande tre-quarti della storia del rugby», nella vita incarnò in purezza gli ideali della middle-class che si tuffò nel Grande Massacro con disarmante spirito sportivo, calciando la palla all’uscita delle trincee come era abituato a fare un altro grande rugbista inglese ucciso nel conflitto, Eward Mobbs. Giocare a rugby come se si stesse andando alla guerra, andare alla guerra come se si stesse giocando a rugby: l’ovale inglese, in fondo, è sempre stato un esempio di come affrontare le avversità. Organizzazione militare, efficienza, sacrificio, molto coraggio. E un pragmatismo spinto alle soglie della ferocia, talvolta oltre, perché sia in guerra sia nel rugby il confine fra crimine ed eroismo è spesso sottile, sfumato, quasi impalpabile.
«Scuole private e scuole pubbliche non si mescolavano molto bene», ha detto T.E. Lawrence in un libro scabro e illuminante come “Lo Stampo”, scritto in incognito in una baracca da aspirante aviere della Raf . Noi possiamo aggiungere: tranne che nel fuoco della battaglia. Infatti il rugby uscì come avvolto da un alone di gloria dal conflitto mondiale. Nei durissimi anni ’20, tormentati da scioperi e scontri fra borghesia e classe lavoratrice, in Inghilterra si fondarono un numero enorme di rugby club, e molte Public Schools abbandonarono il “plebeo” calcio per tornare al “nobile” ovale, in quella eterna tensione fra i poli opposti della concezione sportiva che, con le ovvie differenze, si replica ancora oggi nella faida fra RFU e club.

Nell’intervallo fra le due guerre le figure più luminose furono quelle di Wawell Wakefield – l’uomo che rivoluzionò il ruolo degli avanti, il primo a intuire l’importanza di una terza linea mobile, veloce e contundente – e l’esotico principe Obolensky, nobile russo educato ad Oxford nel Brasenose College, lo stesso di Webb Ellis. Wakefield, vuole la leggenda, non poteva iniziare a giocare «fino a quando qualcuno gli aveva tirato un pugno sul naso»; il mito di “Obo” è fatto di noblesse oblige e geometria in movimento. La sua seconda meta contro gli All Blacks nel 1936, una diagonale folgorante a tagliare il campo e la difesa dei Tutti Neri, secondo T.P. McLean fu «la più stupenda dimostrazione dell’ipotenusa nel rugby». La traiettoria del “Flying Prince”, pilota della Raf come Wakefiels e come in seguito Rory Underwood, terminò purtroppo insieme con quella del suo Hawker Hurricane, schiantato in un campo del Suffolk, nel marzo del 1940. Nel dopoguerra i Bianchi, persa di nuovo una generazione di campioni nelle tempeste d’acciaio, faticarono a lungo a ritrovare l’egemonia perduta. Un lampo anni ’80, con il primo Cinque Nazioni vinto con capitano Bill Beaumont dopo 17 anni di astinenza, e il primo test match strappato agli All Blacks dai tempi di Obolensky. Ma è solo fra anni ’90 e inizio di terzo Millennio che l’Inghilterra riconquista con decisione la scena.
Con Will Carling capitano fra il ’91 e il ‘96 arrivano quattro Cinque Nazioni (e tre Grand Slam), una finale mondiale e soprattutto il segnale forte che il rugby più antico e conservatore del mondo ormai puzza di naftalina. «Se il gioco fosse condotto davvero come uno sport professionistico – si lascia scappare il “traditore” nel fuorionda di un’intervista a una tv dello Yorkshire – per gestirlo non avremmo bisogno di 57 old farts (vecchi scoreggioni, ndr)». Gli scoreggioni non gradirono.
A Carling, famoso anche per la sua molto chiacchierata relazione con Lady Diana, fu tolta (temporaneamente) la fascia di capitano, ma rispetto a cento anni prima il mondo era decisamente cambiato e alla fine anche la RFU si dovette arrendere alla realtà: il professionismo era alle porte, bisognava scendere a patti con la storia.
Dopo quel trauma necessario l’Inghilterra lo ha fatto a suo modo, trovando in Clive Woodward, Jonny Wilkinson e Martin Johnson l’ennesima reincarnazione del suo credo ovale venato di etica anglicana e militarista. Sir Clive è stato il logistico sopraffine, l’organizzatore ferreo, il Master & Commander di un Inghilterra capace, unica nazione dell’emisfero Nord, di aggiudicarsi nel 2003 la Webb Ellis Cup. “Jonno” il sergente di ferro di mischia, “Wilko” l’ufficiale stakanovista e incrollabile, che si allenava a calciare fra i pali anche il giorno di Natale e sul campo, come Johnson, riempiva di muscoli e fosforo il concetto espresso nella frase “leading by example”, guidare con l’esempio.
Quella “dad’s army”, quell’esercito di veterani che nel 2007 fu ancora in grado di strappare una finale mondiale in Francia è ormai andato in congedo. Ma la capacità dell’Inghilterra di trovare sempre nuove leve pronte alla chiamata non si è spenta. «Tutto quello che gli inglesi chiedono ad uno sportivo – ha detto Thomas Castaignede, l’ex apertura della Francia che conosce molto bene il rugby d’Oltre manica – è di rispondere presente sul campo. Non importa in che modo, ma è uno spirito che vive in tutti i settori della vita inglese. Guardate lo spettacolo che offre la metropolitana di Londra. Fianco a fianco trovate gente sobria e comune e ragazzi con incredibili piercing e capelli dipinti di verde, rosso o arancione, che magari stanno andando a lavorare nella stessa azienda. Per gli inglesi, in un certo senso, l’apparenza conta meno che per noi. Loro rispettano chi sa portare fino in fondo ciò che fa, anche se in maniera estroversa, esuberante; a condizione che quando si trova in mezzo agli altri rispetti le regole. La libertà individuale ha questo prezzo, che è anche un limite. Il rugby non è che il riflesso della vita di una nazione. Il peso delle regole, inculcate fin dalla più giovane età finisce per sopprimere l’istinto e la capacità di improvvisazione degli inglesi, che sono invece la forza di noi latini». Johnny Wilkinson, del resto, alla fine di una carriera ricca di allori e cicatrici, non solo fisiche, per ritrovare se stesso è emigrato in Francia e ha confessato di essere buddista. Ma oggi nei selvaggi tuffi in meta di Chris Ashton possiamo riconoscere lo spirito arcaico di chi un tempo decise di trasformare una disordinata rissa fra studenti in un ferreo, vincente sistema di vita.

Comments

  1. Grande Campèon, questo pezzo è bellissimo!

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