Iditarod, inseguendo Jack London nel Grande Nord

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Alla fine la neve è arrivata. Un farmaco bianco, morbido, magico. Una manna gelida e benedetta scesa dal cielo dell’Alaska sulle mille miglia che separano Anchorage da Nome a curare la piaga del grande nord, la mancanza di neve che rischiava di seccare le piste e i sentieri della Iditarod, la corsa di slitte più famosa del mondo che parte oggi a Willow Lake. A dicembre e a gennaio gli organizzatori erano stati costretti ad annullare molte delle gare di preparazione che servono da esame di idoneità ai “rookie musher”, i pivelli delle slitte che vogliono affrontare per la prima volta la Iditarod. Per essere ammesso alla partenza devi avere nel curriculum almeno due gare da 300 miglia ciascuna, e comunque un totale di 750 miglia passate a incitare, coccolare, spingere i tuoi husky su un tracciato che sembra uscito da un romanzo di Jack London.

«Piove, ma non nevica», scuoteva sconsolato la testa a dicembre Zack Steer, uno degli organizzatori della Iditarod. «Il clima sembra impazzito, correre sulla terra non è sicuro». Gli husky danno il meglio sulla neve, a venti gradi sotto zero, sono maratoneti che hanno bisogno del freddo per carburare. «E’ uno degli effetti più evidenti dell’effetto serra», ha dichiarato al New York Times  Jake Crouch, uno dei meteorologi del National  Climatic data Center. «A soffrire più di tutti del cambiamento del clima sono le latitudini estreme, sono diventate ormai zone vulnerabili».

Fra fine gennaio e febbraio l’allarme, almeno per quest’anno, è passato. Sull’Alaska sono cadute 31 inch di neve, circa 80 centimetri, e così oggi alle dieci di mattina ora locale, alle 20 in Italia,  sessantanove  “mushers” provenienti da sette Paesi – Usa, Canada, Russia, Norvegia, Nuova Zelanda e (oh yes!) Giamaica e Brasile –  fra cui tredici rookie, saranno puntualmente alla partenza. Sul tracciato da settimane gli alaskani e i forestieri dei “lower 48” – i “48 in basso”, come i locali chiamano gli altri Stati dell’unione – si stanno preparando a una settimana e oltre di gara: il record di velocità, 8 giorni, 18 ore, 46 minuti e 26 secondi, spetta al vincitore del 2011, John Baker. (per chi vuole seguirla sul sito ufficiale http://iditarod.com/)

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La gara è nata nel 1973 per celebrare l’epopea dei capimuta e degli husky che hanno cucito insieme l’Alaska, ma anche per salvaguardare il magnifico, selvaggio percorso che da Seward conduce a Nome, oggi monumento nazionale, sul quale è assolutamente vietato scorrazzare con qualsiasi mezzo meccanico. Per impedire, insomma, che la tecnologia  spazzi via la cultura legata alle slitte e alla razza degli husky, gli splendidi cani dagli occhi di ghiaccio che oggi fa tanto chic tenere al guinzaglio nel torrido delle nostre città ma che sono nati per correre, più o meno liberi, sulla neve.

I primi a tracciare il “trail” che taglia in due l’Alaska, scavalcando le montagne e il fiume Yukon furono gli esploratori russi e le guide indiane, fra XVIII e XIX secolo; la grande corsa all’oro di fine Ottocento completò l’opera trascinando su quelle piste impossibili, fra passi inaccessibili e tempeste di neve, un esercito improvvisato avventurieri in cerca di pepite che finirono per fondare campi minerari, poi trasformatisi in villaggi e città dai nomi esotici o scintillanti come minerali: Flat, Ophir, Ruby, Nulato, Kaltag, Unalakleen, Elim, Golovin, White Mountains, Safety, Nome…

Gli unici mezzi in grado di farsi strada in quel paesaggio crudelmente fiabesco, ai tempi, erano le slitte trascinate dai cani. Convogli di muscoli e legno che trasportavano da un lato all’altro del Grande Nulla uomini, medicine, viveri e posta, rischiando ad ogni tratta di finire sepolti dalla neve o congelati dal freddo polare. Il percorso dell’Iditarod – una parola che nel dialetto degli indiani Shageluk  significa Acqua Chiara, e dà il nome a un villaggio fantasma attraversato dalla corsa – in particolare ricorda l’impresa che nel 1925 compirono venti mushers capaci con le loro mute di affrontare un inverno infernale, vecchio stile,  per portare fino a Nome, isolata dalla neve, i farmaci contro la difterite che aveva colpito la città e minacciava di provocare una strage.

L’idea di celebrare quei pionieri venne nel 1964 a Dorothy Page, la presidentessa della comunità della Mananuska-Susitna Valley, in  tempo per festeggiare i 100 anni del passaggio dell’Alaska dalla Russia agli Stati Uniti che sarebbe caduto nel 1967. L’anniversario fu mancato, ma Joe Reddington, il vero padre fondatore della gara, si impegnò a portare comunque avanti il progetto fra mille difficoltà. Nel 1973, dopo molti tentativi abortiti  e con l’aiuto addirittura dell’esercito americano che contribuì a liberare una parte del tracciato, la prima Iditarod finalmente arrivò a Nome.

In questi quarant’anni la corsa è diventata l’evento sportivo più importante dell’Alaska, e provocato la nascita di un circuito di gare di contorno – la Kobuk 440, la Kusko 300, la Copper Basin 300, la Klondike 300 e altre ancora – che nei mesi invernali riempiono dei “Whoa!” e dei “Mush, lets’go!” dei capimuta i tanti villaggi dello Yukon e del Klondike.

La gara è lunga, sfiancante, meravigliosa. Finisce solo quando tutti i mushers partiti da Willow e passati attraverso i tanti checkpoint sono transitati sotto il Burled Arch, a Nome. Al primo spetta l’onore si spegnere la Widow’s Lamp, la Lampada della Vedova che tradizionalmente viene accesa all’inizio della gara. All’ultimo, che può arrivare anche molti giorni dopo il vincitore, la goliardica infamia della Red Lantern, la Lanterna Rossa che l’aiuterà a ritrovare la via di casa quando ormai tutti riposano al caldo. La Iditarod è stata immortalata anche dalla Disney, con il film intitolato “Balto”, dal nome dell’husky protagonista della pellicola, e anche oggi che i cani sono dotati di microchip anti smarrimento e che sul tracciato vigilano ben 52 veterinari pronti a intervenire, mantiene parte del suo fascino vintage,  da ultima frontiera,  a metà fra Zanna Bianca e Tourist Trophy.

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Qualcuno obietta che ormai si tratta più di business che di avventura, che la gara è più un baraccone mediatico che un fatto sportivo. Ci sono musher senza scrupoli che drogano i poveri husky, da 12 a 16 per muta, per portarsi a casa i 660 mila dollari del prize money che spettano ai primi 30 equipaggi capaci di arrivare al traguardo. E quando non è il doping, spesso è la stanchezza a stroncare i cani. Una traccia di sangue che macchia il bianco abbagliante della neve e ricorda al mondo di quando in Alaska correre sulle slitte – per tutti, animali e cristiani – non era questione di sport, ma di vita o di morte.

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