O.J. Simpson, il modello sbagliato

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Quello del Role Model nello sport è un mito pericoloso. Lo ha scritto recentemente Simon Kuper, opinionista di moda sul web, ma dopo gli ultimi due o tre anni ormai lo pensiamo tutti. Tiger Woods, Lance Armstrong, Oscar Pistorius: se sul fatto che a indossare la tuta del Grander Atleta fossero solo Grandi Uomini – oh, ingenui – qualcuno ancora coltivava dubbi, gli ultimi casi hanno fatto cadere il velo. Sotto i panni che gli fila addosso il marketing sportivo il campione è nudo, lo è sempre stato, come tutti noi.

E pensare che gli Usa abbiano affidato il compito di avviare una “diplomazia” del basket in Nord Corea a Dennis Rodman, il Verme, grande cestista al cospetto di dio, ma anche uno che ci va giù facile e duro con le botte alle donne e l’alcool, qualche brivido lo fa venire. Fai sport perché Bryant, Tyson, Giggs sono belli da guardare in tv, ma non illuderti che siano anche belli da copiare nella vita. Fina dalle origini i Falsi Miti non sono mancati – assassini, corrotti, drogati – ma la prima, grande patacca che lo sport post-moderno, lo sport business, ci ha regalato, è stata quella di O.J.Simpson.

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O.J. è il sorriso che ti uccide, il nome di una corsa che non finisce bene. Di un labirinto di veri e falsi movimenti. Di cortocircuito che da quasi vent’anni anni attraversa e ustiona la coscienza americana. Un dubbio che non è un dubbio. Una verità che nessuno vuole veramente sapere. A giocare e sprintare con il fuoco Orenthal James Simpson aveva iniziato prestissimo, da ragazzone prodigio del football americano dei college. Ruolo da running back, quello che deve spingere sui piedi, depistare, sfondare. Pelle nera, sorriso travolgente. Destino da immortale. «Non solo il miglior giocatore che io abbia mai allenato – diceva John McKay, il suo coach all’University of South California – Ma il miglior giocatore che chiunque abbia mai allenato».

La metaforfosi  in eroe nazionale, nel campione nero che fa impazzire anche i bianchi, prende forma durante e subito dopo la sua carriera da fenomeno fra i professionisti, prima con i Buffalo Bills e poi con i San Francisco 49ers. Nel 1979, demoliti tutti i record, Simpson si toglie casco e uniforme. Ha già iniziato da tempo a sorridere agli americani infilato in altri altri panni. Da attore ha il fisico, non il talento, comunque partecipa a pellicolone come Inferno di Cristallo, Cassandra Crossing, Capricon One, poi continua con tutta la serie della Pallottola spuntata, guadagnandosi per l’ultimo sequel anche il Razzie Award come peggiore attore dell’anno, nel fatale 1994.

Da divo dei commercials è l’uomo che spiega ad una nazione perché è meglio noleggiare una Hertz: chi non si fiderebbe di O.J., la sigla del successo? Peccato che la sua vita privata sia tutto un detour. Il primo matrimonio è naufragato nel 1979. Nicole Brown, bionda, bella, sensualissima, molto disinvolta, diventa sua moglie nel 1985, e subito iniziano a correre voci di infedeltà (della Brown) e botte (di Simpson). Ma O.J è un idolo  anche per la polizia di Los Angeles: partecipa ad eventi di beneficienza, riceve agenti nella sua lussuosissima mansion di Rockingham. Nicole si lamenta, ma non le badano. Nel 1992 Mrs Simpson chiede il divorzio.

Il 13 giugno 1994 la trovano a casa sua, semidecapitata, accanto al cadavere di Ron Goldman, cameriere del “Mezzaluna” e presunto amante, massacrato da 17 coltellate. Quattro giorni dopo Simpson, che è l’unico sospettato ma si rifiuta di collaborare, si cala nel suo ruolo più sciagurato e meglio riuscito, incollando alla tv più di 100 milioni di americani. Fa quello che ha sempre saputo fare meglio, O.J.: corre. Scappa, sfugge agli avversari. Non a piedi ma sulla strafamosa Ford Bronco guidata dall’amico A.C Cowlings sulle strade della California. Un reality riuscitissimo: le telecamere lo braccano, la gente ai bordi della strada tifa per lui. Simpson è armato, minaccia di suicidarsi.

Poi l’ennesimo cambio di passo: marcia indietro, si torna in casa. «Sono pulito, innocente al 100 per cento», urla, anche se nella Bronco gli trovano barba e baffi finti, 10 mila dollari, tracce di sangue di Nicole e il guanto gemello di quello che l’assassino ha lasciato sulla scena del crimine. Placcato. L’America però non è un set di CSI. E’ il paradiso degli avvocati. Quelli bravi, che ti prosciugano il conto in banca ma smentiscono anche l’evidenza.  Così durante il Processo dei Processi che inizia il 25 gennaio 1995 il “dream team” messo insieme da O.J. e guidato da Johnnie Cochran punta tutto sulla questione razziale.  Simpson è nero, è la tesi, ricco e famoso: l’America bianca e soprattutto il poliziotto razzista Mark Fuhrman – l’unico non amico di O.J., che ha sulle spalle registrazioni pieni di ingiurie ai neri – non vedevano l’ora di incastrarlo, è stato Fuhrman a fabbricare le prove. Guarda caso anche nella vicenda Pistorius c’è uno “sbirro” sbagliato, prove che – apparentemente – non reggono.

L’accusa contro O.J., rappresentata da una donna, Marcia Clark, e da un nero, Christopher Darden, si fa smontare anche la prova del DNA. Dopo 253 giorni di processo, il 3 ottobre, la giuria scagiona Simpson. Not guilty. Per non scatenare incidenti razziali, si dice.  O.J. è un ex eroe, un uomo ormai pieno di debiti, mollato dalla high society californiana. Ma un uomo libero, e il verdetto del processo civile, voluto dai parenti delle vittime, che capovolge la sentenza del penale, non serve a riportarlo in carcere. Dietro le sbarre ci si rimette lui, e per 33 anni secondo la giustizia Usa, nel 2007, dopo un furto in un hotel di Las Vegas commesso per “riprendersi trofei che erano miei”.  Per pagare il conto degli avvocati e i 33,5 milioni di dollari della condanna civile. Per comprarsi il diritto a scendere da una corsa infinita che ha come meta l’inferno.

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