Si chiama March Madness, la follia di marzo, e fin qui niente di speciale. Marzo è il mese pazzerello per eccellenza ma l’insanità che coglie gli appassionati di sport americani a inizio primavera non ha niente a che fare con i riti propiziatori e le sagre pagane. O forse sì, chi lo sa. Ma non è questo il punto.
Quello che ci interessa è che la March Madness ha a che fare con il basket, visto che si tratta del modo in cui gli americani da 75 anni esatti (sono già in corso grandi celebrazioni: www.ncaa.com) chiamano la grande stagione della pallacanestro universitaria. Un evento che dal momento in cui esce il bracket, il tabellone degli accoppiamenti, coinvolge chiunque, e induce instabilità emotiva e sovraeccitazione in (quasi) tutti gli americani, dal presidente Obama in giù. E che probabilmente serve a spiegare perché noi italiani non siamo, e forse non saremo mai un paese sportivamente evoluto.
Il termine March Madness deriva addirittura dall’economia, o meglio – neanche Mario Monti, ci scommettiamo, lo sa – dalle questioni fiscali nordamericane. In Canada l’anno fiscale il primo di aprile, e quelli delle tasse, nonostante la data, da quelle parti tendono a scherzare pochissimo. Succede allora che gli amministratori che a marzo non hanno ancora speso il loro budget iniziano a fare spese “folli” per mostrare che il budget annuale a loro disposizione non era eccessivo, e quindi evitare di ritrovarselo tagliato l’anno successivo.
Il primo a trasportare il termine nel basket per dare l’idea dell’agitazione collettiva che coglie gli yankee quando la stagione dei college entra nel vivo fu Henry Van Arsdale Porter, un allenatore, dirigente sportivo professionista (e poeta dilettante) dell’Illinois che nel 1939, giusto 75 stagioni fa, applicò la locuzione March Madness ai parquet universitari. Tre anni dopo la usò anche in una pomposa poesiola che, se avete la pazienza di leggere, recità così: «With war nerves tense/ the final defense/ Is the courage, strength and will/ In a million lives where freedom thrives/And liberty lingers still./ Now eagles fly and heroes die/ Beneath some foreign arch/ Let their sons tread where hate is dead/ In a happy Madness of March».
Non importa che vi sia piaciuta: il valore dei versi è documentario, e vi basti sapere che dai tempi di Porter a oggi la follia di marzo è cresciuta sino a coinvolgere 68 team (dagli 8 originari), e che il contratto firmato con la CBS e la Turner Sport nel 2010 (con scadenza nel 2024) garantisce alla NCAA – la struttura che governa lo sport universitario americano – 500 milioni di dollari all’anno, ovvero il 90 per cento delle sue entrate.
E’ inutile qui elencare i campioni, da Jabbar a Magic Johnson e Larry Bird – che nel ’79 diedero vita a una delle finali più memorabili di sempre – alle grandi storie, ai coach leggendari – John Wooden su tutti – che hanno fatto la leggenda della March Madness. Un appuntamento che a partire dagli anni ’80 è diventata davvero un tornasole sportivo-antropologico degli Usa, oltre che una via d’accesso privilegiata alla Nba.La cosa su cui forse vale riflettere è che gli Usa, come tutte le nazioni sportivamente evolute (l’Inghilterra e tutto il mondo anglosassone in testa), hanno alla base una forte presenza dello sport nella scuola e nell’università. Una presenza che rende possibile coltivare, e soprattutto praticare almeno 3-4 discipline sportive, avendo a disposizione impianti moderni, capienti, ben attrezzati, che per i College rappresentano spesso non solo una questione di orgoglio ma anche una fonte di finanziamenti e risorse importantissima.
I ragazzi americani e inglesi vengono (letteralmente) educati dalla scuola ad amare e praticare tanti sport, a sentirsi rappresentati da una comunità sportivamente evoluta e non da una monocoltura calcistica, come accade da noi. Dun esempio? Dopo il primo boom del rugby in Italia le società sono state assaltate da una piccola marea di aspiranti atleti, ma quell’onda di popolarità si è scontrata con la mancanza drammatica di campi e infrastrutture, con la formazione spesso non adeguata degli allenatori, con un “milieu” dove solo l’associazionismo di base, meritorio ma spesso abbandonato a se stesso, assolve il compito di fornire le nozioni di base – come le chiamerebbe Ettore Sotsass – agli atleti in erba.
Così i 59 mila che anche nel match del Sei Nazioni di sabato scorso hanno affollato l’Olimpico scaldano il cuore, ma non risolvono il problema di uno sport oggi popolare ma che difficilmente, come è accaduto in passato allo sci, alla stessa pallacanestro, all’atletica, riuscirà a trasformarsi da abitudine in cultura: proprio per mancanza di una linfa, di un nutrimento. Sino a quando lo sport non entrerà in maniera seria nelle nostre scuole resteremo condannati ad essere un paese di fanatici di calcio – un gioco bellissimo che però inghiotte quasi tutte le risorse e le attenzioni – di tifosi monomaniaci incapaci di “impazzire” in maniera duratura per lo sport.
Che invidia, per quei folli degli americani. E non solo a marzo.
E delle società di rugby che, oltre a tenere in piedi un vivaio, si fanno il mazzo anche per proporlo nelle scuole, non diciamo niente, caro Stefano?
INfatti parlo di associazionismo di base, che comprende tutte le società che a livello giovanile fanno tanto per provare ad abbattere il muro. Ma finché non e lo mettono in testa i dirigenti di vertice e i politici…