Pacifico, l’ultima frontiera del rugby

Italia vs Australia

“E’ il capitano che parla. Stiamo per atterrare a Nelson, la visibilità è buona, la temperatura esterna è di 5° e la Scozia all’intervallo è in vantaggio 6-3 sull’Argentina. Grazie di aver volato Air New Zealand”.

Nella repubblica divisa in due isole e fondata sul rugby, il Mondiale,  due anni fa, andava in onda sempre e comunque. In Nuova Zelanda del resto tutto è nero come le maglie degli All Blacks: le divise delle hostess, le mucche, i cigni, i maiali, persino il Messia, nei deliri post-conciliari di qualche parroco di provincia,  con l’aureola gialla attorno al faccione di Richie McCaw. Solo le pecore sono chiare. Ma se sei una pecora, si sa, non giochi a rugby.L’ovale è la coscienza della Nuova Zelanda. Gli “Originals”, i pre-All Blacks che nel 1905 squassarono le Isole britanniche con le loro mete, partirono da una colonia e tornarono in una Nazione. L’avevano (quasi) fondata loro.

Una nazione composita, civilissima, verde, squilibrata, porosa. Un avamposto dell’Occidente che deve fare i conti con Oriente. 4,4 milioni di abitanti, l’80 per cento di origine inglese e scozzese, il 14 per cento di maori – gli antichi abitanti di Aoteratoa, il nome indigeno della Nuova Zelanda – il 6 di etnie miste e il 3 per cento di polinesiani. Gente di Tonga, Samoa, delle Fiji, neozelandesi di prima o seconda generazione che come i maori contano poco nella società ma sempre di più nel rugby. Perché gli isolani sono grandi, grossi, veloci, hanno muscoli di bambù, resistenti e flessibili, corrono come Bolt e placcano come ossessi. Tanto che le mamme bianche dell’Isola Nord, dove vivono i tre quarti dei neozelandesi e quasi tutti i maori e i polinesiani, da qualche tempo hanno iniziato a dirottare i figli verso il calcio, dove i cuccioli bianchi non rischiano di trovarsi contro traumatizzanti coetanei di pelle più scura e taglia extralarge.

Vent’anni fa i Pacifici si materializzarono nelle magliette blu elettrico delle Western Samoa, ai Mondiali smontarono letteralmente e inopinatamente  il Galles. “E meno male che erano solo le Samoa occidentali”, commentò uno shoccato dragone. “Figuriamoci se erano le Samoa intere (ovvero la nazionale di oggi, ndr)”. Il rugby, che era uno sport per bianchi, iniziò a meticciarsi.

I giocatori di origine polinesiana negli ultimi 15 anni da reietti sono diventati superstar globali – il divino  Jonah Lomu, tongano nato ad Auckland nella township di Mengere, ma anche Inga Tuigamala o Tana Umaga – e hanno cambiato la miscela etnica dei Tutti Neri. Nel 1999 i giocatori di origine pacifica con la felce sul petto erano sei, nel 2003 nove, nel 2007 undici. All’ultimo Mondiale erano otto, ma anche sette nell’Australia e negli Usa, tre nel Giappone. Il samoano Manu Tuilagi gioca nell’Inghilterra e il tongano Tobi Faletau è il golden boy dei gallesi che all’Olimpico qusto fine settimana sfidano un’Italia nella quale al posto di Parisse, squalificato, il numero 8 riposerà sulle spallone di Manoa Vosawai (nella foto Fotosportit/Pratelli), il fijano d’Italia, nato 29 anni fa a Suva ma che da ormai nove anni placca e porta palla dalle nostre parti – prima a Parma, ora a Treviso – e che ha anche una futura moglie italiana, Chiara.

Il 20 per cento dei rugbisti presenti ai Mondiali neozelandesi erano figli vicini o lontani di tre piccole isole che arrivano a stento al milione di abitanti. E dove le nazionali più famose hanno paura di andare a intrecciare mischie: troppo caldo, umido, faticoso. In tutta la loro storia mai gli All Blacks hanno giocato un test-match a Tonga, Fiji o Samoa. “Onestamente, non possiamo permetterci di giocare in posti dove non c’è ritorno economico”, ha ammesso Steve Tew, direttore esecutivo della federazione neozelandese. Cinismo nero.

L’ironia è che mentre i club e le nazionali di tutto il mondo fanno da tempo shopping in Polinesia quando hanno bisogno di “centri” e numeri 8 capaci di fratturare difese e portare la palla, gli isolani per mettere insieme nazionali competitive sono obbligate a di reclutare figli o nipoti di di emigranti illustri. Come Paul Williams, nato in Nuova Zelanda e figlio dell’ex-All Black Bee Gee Williams, che ha scelto di vestire il blu di Samoa. Anche perché i riccastri europei hanno poca voglia di rischiare l’investimento e blandiscono – o se preferite: ricattano – i loro talenti degli antipodi. O la borsa o la patria.

Il Leinster ha offerto soldi al fijiano Isa Nacewa perché non partecipasse ai Mondiali, lo stesso ha fatto il Newcastle con il samoano Jamie Helleurt, la lista potrebbe allungarsi. “Offrono loro denaro, appartamenti e macchine”, ha denunciato il vice-allenatore di Samoa Tom Coventry. “Oppure li minacciano di non rinnovare il contratto se accettano la convocazione in nazionale. I ragazzi che decidono di vestire la maglia di Samoa lo fanno con grande umiltà, lasciandosi dietro assegni e fama per giocare per i loro amici, le loro famiglie, i loro villaggi. Ma per alcuni non è una scelta facile”.  Un neo- colonialismo soft, e ovalizzato.

Il giorno della finale dei Mondiali  l’Eden Park di Auckland, “la più grande città polinesiana del mondo” con i suoi oltre 200 mila inquilini di origine isolana, si è acceso per All Blacks-Francia, e ad innescare la pirotecnia è stata la danza elettrica di Ma’a Allan Nonu, sangue samoano e anagrafe neozelandese. Ma la domenica dopo il tempio del rugby  kiwi è andato esaurito anche per Samoa-Fiji, il derby delle isole. Sessantamila tifosi che, nel giorno in cui il vecchio totem Jonah Lomu era tornato in ospedale, hanno camminato e danzato per i saliscendi di Auckland, attraverso le periferie fatte di casette coloniali, gli specchi d’acqua, gli istmi, i grattacieli affacciati sul waterfront dove riposano gli scafi carichi di gloria dell’America’s Cup. Che si sono infilati parrucche e magliette blu o bianche, ignorando la pioggia e il vento per ammirare prima di tutto la battaglia fra le “haka”. La “sivi vatu” di Samoa, a cui i fijiani hanno risposto rabbiosamente manovrando il semicerchio guerriero della loro “cibi”.Nel 1924 si erano incontrati per la prima volta ad Apoa, in un campo in discesa, con un albero in mezzo e alle sette di mattina, perché i samoani, dopo, dovevano andare al lavoro. Vinsero le Fiji, 6-0, stavolta Samoa ha dominato 27-7. Dopo la fine della Coppa torneranno, tutti insieme, al loro destino di operai di lusso del mondo ovale.

 

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