Che la Formula 1 sia in crisi, come il 90 per cento delle attività economiche sul pianeta, non è una novità. Ma se a suonare l’allarme è Martin Whitmarsh, il boss della McLaren, allora un po’ c’è da preoccuparsi. «Di 11 team almeno 9 sono al limite della sopravvivenza», ha dichiarato Whitmarsh alla BBC. «Abbiamo cercato di prendere alcuni provvedimenti ma per molti di loro sarà difficile trovare un modello di sviluppo sostenibile per parecchi anni, su questo non c’è dubbio». Il pessimismo di Whitmarsh ruota (anche) attorno alla sempiterna questione dei diritti televisivi, la cui fetta più grossa va alla CVC, il fondo di investimento proprietario della F.1, con grande scorno delle scuderie, che pure negli ultimi anni qualcosa sono riusciti a rosicchiare, ma che aspirano a più dell’attuale 47 per cento ( lunedì prossimo sull’argomento una analisi di Paolo D’Alessio comparirà sul magazine online di Italiaracing.net)
«I team hanno più soldi di Dio!», tuona Ecclestone, ma le scuderie replicano che troppa parte della ricchezza prodotta dalla F.1 finisce fuori dal Circus. «Bernie è molto bravo a muovere le carte sul tavolo», ha aggiunto Whitmarsh, «ma forse un po’ di colpa è mia, su quell’argomento ho lottato ma avrei potuto farlo meglio». Il risultato è un gap sempre più netto fra i top-team e le squadre minori, e criteri di scelta dei piloti sempre più legati alla “valigia” di sponsor che questi ultimi sono in grado di assicurare. Il quadro non è aiutato dall’instabilità delle regole sui motori. Ecclestone ancora recentemente ha proposto di ritardare l’ingresso dei nuovi 1.6 cc turbocompressi che dovrebbero entrare in scena nel 2014. «La F.1 in questo sa essere davvero autodistruttiva – continua Whitmarsh – perché se mi trovo a parlare con il CEO della Hyundai o della Toyota per convincerli a entrare in F.1 e gli parlo nelle nuove regole sui motori, mi sento replicare: “ho letto ieri che alla fine i V6 non si faranno…”. Abbiamo creato un ambiente instabile, non facciamoche mettere in piazza i problemi discutendone in maniera confusa e poco utile. Quando mi trovo a parlare con il board di costruttori interessati alla F.1 li sento dire: “okay, aspettiamo altri due anni e vediamo cosa succede”. Il problema è che molti team non possono permettersi di fare progetti così a lungo termine, la loro preoccupazione è pagare i salari ai meccanici e i conti ai fornitori fra pochi mesi in Australia».
In questo panorama si innesta anche la nuova politica televisiva voluta da Ecclestone. Dal “tutto in chiaro” si sta passando ad un regime ibrido con prevalenza delle tv a pagamento – essenzialmente Sky – e questo potrebbe forzare i team a rivedere gli introiti delle sponsorizzazioni. Il contratto con Sky vale 100 milioni di dollari, con un incemento del 25 per cento rispetto al passato, ma significa anche un’audience più bassa. E meno telespettatori ci sono, meno gli sponsor sono disposti a pagare. «Come in tanti altri sport che hanno fatto la stessa scelta – sostiene il team manager della Lotus, Eric Boullier –, ad esempio la Premier League inglese, i compensi dovuti ai diritti televisivi aumenteranno, ma dovremo tutti monitorare la situazione. Avremo un pubblico più fidelizzato e competente, ma dovremo forse rivedere le nostre tariffe con gli sponsor se la tendenza diventerà globale». Meno sponsor, più soldi dai diritti tv. Può sembrare un buon affare se non che mentre nei mercati tradizionali la F.1 raccoglie quasi ovunque buoni ascolti, in quelli nuovi, che Ecclestone ha esplorato negli ultimi anni, la situazione non è allegra. Come pubblicato da Formula Money, in Cina l’anno scorso si è passati da 78,5 a 48,9 milioni di telespettatori, in Russia il calo è stato del 12,8 per cento, negli Usa nonostante l’arrivo del GP ad Austin l’audience totale per la F.1 è scesa del 3 per cento. Crolli compensati dal + 8,9 per cento in Brasile, dal 11,5 in Spagna e dal 15 in Italia, ma se il futuro è l’espansione sui mercati in espansione allora c’è da preoccuparsi.
L’orizzonte insomma è corto, le preoccupazioni montanti. La soluzione sempre la solita: abbassare i costi. «Se un team riesce a sopravvivere senza i soldi di un azionista-sponsor, vuol dire che il team è finanziariamente sano, se non ci riesce vuol dire che non è autosufficiente e dipende dagli investimenti», spiega Whitmarsh. «Credo che almeno una dozzina delle attuali scuderie siano in questa situazione». Una visione che anche il team principal della Caterham, Cyril Abiteboul condivide: «C’è solo un team che riesce a fare benissimo in pista e anche dal punto di vista commerciale, la Red Bull. Ma loro hanno la fortuna di avere un azionista di lusso che li ha aiutati sin dall’inizio, senza farli dipendere da altri sponsor. Tutti gli altri team sono in sofferenza». L’allarme rosso sta suonando. (Per saperne di più lunedì prossimo consultate l’analisi di Paolo D’Alessio sul magazine online di Italiaracing.net)
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