Avvertenza: questo è uno spazio del rimpianto, una parentesi malinconica. Passatista, anacronistica, molto fanè. Un’elegiia che come tutte le elegie per statuto non vuole fare i conti con i tempi che cambiano, un interludio che ai tanti entusiasti del presente – fra i quali rientrerò ordinatamente alla fine del rigaggio, non c’è da preoccuparsi… – suonerà magari un po’ noioso.
Come noiosa, indubitabilmente, è la pioggia. Nei lunghi pomeriggi umidi passati fino al 2009 a Church Road, nella periferia sud ovest di Londra, scrutando i nuovoloni gonfi che allagavano con perseveranza tutta britannica i sacri praticelli di Wimbledon, non c’è tennista, spettatore o giornalista che, dal 1877 a quattro anni fa, non abbia inveito “the pouring rain”, invocando un tetto per il torneo più famoso del mondo. E il tetto, puntuale come le falciatrici a cottimo in una canzone di Paole Conte, è arrivato a battere il tempo della post-modernità.
Eppure anche la pioggia, un po’ come la nebbia corteggiata e ringraziata da Auden, “so restful yet so festive”, così riposante eppure così festiva, era in fondo anche un interludio amico, un interim fatto di tè e pettegolezzi, un complice eccentrico. Da tempo si era dissolto il tabù delle divise candide – e i Giochi di Londra hanno portato t-shirt da carnevale e cartelloni viola dove un tempo regnava solo il green & white – nel 2003 è stato abolito l’inchino al “royal box”, il palco reale, cui erano tenuti per tradizione tutti gli ammessi all’onore del Centre Court, la sindone verde del tennis.
Fu lo stesso Duca di Kent, presidente onorario del Club, a chiederne la soppressione: non gli pareva, in un soprassalto di modernità, “adeguato ai tempi ormai mutati”. Il “bow”, l’inchino dei maschi, e la “curtsey”, la riverenza femminile, diversi nella tecnica, restano in vigore solo nei casi in cui il box accolga l’epifania di un membro della famiglia reale, e non pochi giocatori ne rimpiangono l’usanza quotidiana. Rod Laver, il campionissimo australiano, ricorda con brividi di nostalgia come l’idea di toppare la genuflessione, alla vigilia della sua prima comparsata sul centrale, nei ruggenti sixties, gli avesse tolto il sonno.
“La prossima ad andarsene sarà l’erba”, mormorava qualche anno fa afflitto Gianni Clerici, con l’aria di chi inorridisce per blasfemia. Certo, a Wimbledon restano pur sempre le fragole con la panna (carissime, e senza sapore), le file per i biglietti, i volontari della Fire Brigade in divisa, e le torrette in mattoncini bruni e legno che danno al club l’aria bizzarra di un lager immerso in un giorno di festa. Ma anche alle porte del tempio del tennis, come in tutti gli altri sport, i mercanti stanno bussando con sempre maggiore insistenza. Il tetto di Wimbledon non serve certo a evitare il reuma agli spettatori, piuttosto a garantire le costose telecronache dei network televisivi. Il business è nemico delle cerimonie, si sa. O meglio: ne ha di tutte sue. Gli officianti sono obbligati a cambiare paramenti e formule.
Pare nulla, se non fosse che lo sport stesso è un solo, grande rito – di passaggio e di auto-rappresentazione, di illusione e di consolazione. A tirarne troppo i fili si rischia di restare senza tessuto. Nel calcio se ne è andata da tempo in gloria la sacralità della domenica. Era la sola giornata dedicata al dio pallone, radiolina all’orecchio e schedina in mano. Oggi ci sono partite 24 ore su 24, i gol arrivano via mms. Anche le maglie non sono più quelle di un tempo: numeri che sforano di decine la canonica lista da 1 a 11, design e colori in continua evoluzione per compiacere il marketing. La moviola una volta era unica, l’angelus laico del dì di festa, annunciato urbi et teleschermi dal duo Sassi & Vitaletti alla domenica sportiva. Ora è arrivata anche in campo, convocata dalla petulante pervasività dei processi televisivi.
E’ caduto, in tutti gli sport o quasi, il tabù dell’inviolabilità dello spogliatoio e della panchina, con microfoni invasivi e pervasivi. Nel rugby, sport fra i più asserragliati nelle proprie tradizioni, dove pure ha fatto ingresso la moviola, resistono i mantra pre-partita, come la haka, la danza di guerra degli All Blacks, e le sagre del dopo: il terzo tempo che riunifica i contendenti davanti ad un boccale di birra. Il golf ha ceduto: nel bene e nel male. Lo sport più bianco del mondo ha avuto per anni un padrone coloured – Tiger Woods – ma la diciannovesima buca, quella che si giocava al bar, è ormai solo una vuota leggenda.
Nel ciclismo inaridiscono le riunioni in pista, e nell’inseguimento il rito e l’arte del “surplace”, del bloccare la bici immobile sul parquet in attesa della mossa del rivale, è coltivata ormai da sparuti epigoni. Anche la tecnologia contribuisce a spegnere gli antichi costumi. Nella scherma, gli sciabolatori erano maestri di sceneggiate; tirata una stoccata sospetta, si lasciavano andare ad urli, implorazioni, sdegni monumentali per convincere i giudici della bontà del colpo. Oggi un semplice “bip” elettronico cancella i dubbi, e il teatro. Anche il cricket, come il tennis, ha abbandonato il bianco per divise variopinte e un po’ kitsch, mutilando fra l’altro anche la proverbiale durata dei match. Meno riti, più velocità. Meno poesia, molti più danè.
Viviamo nell’epoca del disincanto, e se a Londra l’estate scorsa si è ripetuto il rito della fiaccola e del braciere, il mito dei miti dello sport, quello olimpico, è finito combusto da decenni, prima nella strage di Monaco, poi nelle strategie dei businessman dello sport, negli intrugli high-tech del doping. O forse, più probabilmente, non è mai esistito. Nessuno, diciamocelo, nemmeno De Coubertin, ha mai davvero creduto che partecipare fosse più importante che vincere. Ma l’illusione, almeno quella, potevano lasciarcela.
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