Lo Cicero, inizia il Sei Nazioni: l’ennesimo Cucchiaio di legno o il torneo della svolta per l’Italia?
«Tutti gli anni il Sei Nazioni ci ha dato emozioni diverse. Fino a questo punto è stato il torneo a ricevere regali da noi, ora tocca a noi farcene qualcuno di materia pregiata, e non più di legno possibilmente. Anche perché il corredo per la cucina ormai è completo…».
Domenica c’è la Francia a Roma: che match si aspetta?
«Mi aspetto una Francia giovane, con qualche cambiamento. Una squadra iperattiva. Tenteranno di metterci sotto con la mischia, come sempre: vediamo se ci riescono».
Dopo la vittoria di due stagioni fa i francesi ci temono di più?
«No, perché sono francesi. Si sentono superiori. Ma è un’arma a doppio taglio».
Quel successo scatenò l’entusiasmo. Ma possiamo vivere solo di ricordi?
«La vittoria del Flaminio fu un sintomo della crescita della nazionale. Però non possiamo fermarci a una sola partita e a un mini-trofeo, il trofeo Garibaldi, per essere felici. L’Italia oggi ha una squadra che può andare avanti, ottimi tecnici, uno staff che lavora bene. Prima o poi anche a noi toccherà pensare solo alle vittorie».
Cinque definizioni per le nostre avversarie. Partiamo dalla Francia…
«Briosa. L’ Inghilterra invece è diretta. L’Irlanda spaccona, la Scozia confusa. E il Galles… è rosso. I gallesi sono molto pieni del loro colore, molto orgogliosi, però quest’anno gli si può fare qualche scherzetto».
Il ct francese Jacques Brunel che cosa ha cambiato nell’italia del dopo Mallet?
«Brunel ci vuole sempre protagonisti. Il suo motto è: non aspettare quello che fanno gli altri, ma approfitta di quello che puoi fare tu con il pallone in mano. E se non hai il pallone, cerca di essere comunque utile. Concetto semplice, ma efficace».
L’Italia di oggi che cosa ha in più rispetto al passato?
«Una linea dei tre-quarti che gioca più insieme, che ha più continuità. Militando nello stesso club si aumenta la complicità. I risultati si vedono».
I test match di novembre sono stati positivi. Cosa si aspetta dal Sei Nazioni?
«Ulteriori progressi, e qualche rimbalzo in più a nostro favore: ne bastava uno a favore di Parisse a novembre e avremmo battuto l’Australia».
Sulla carta è un torneo molto equilibrato. L’Italia può puntare a due vittorie come nel 2007?
«Dobbiamo pensare solo a giocare, il resto viene di conseguenza. Io sono felice se a fine partita vedo la squadra sorridere e e magari commuoversi. Ma pronostici non ne faccio, mi dispiace: sono un maledetto terrone (ride, ndr), è proprio una questione di scaramanzia».
L’Olimpico è la nuova casa del rugby italiano. Le piace o preferiva il Flaminio?
«Mi va bene qualsiasi stadio. Chiaro che il Flaminio è una bomboniera, era diventato il nostro tempio, ha un valore storico e architettonico importante. L’Olimpico però è l’Olimpico: è la storia. I trentamila del Flaminio li senti più vicino, gli 80 mila dell’Olimpico li senti più lontani, ma più forte».
Domenica 3 circa 400 azzurri del presente e del passato riceveranno un “caps”, il simbolo dell’appartenenza alla nazionale. Quanto conta per un rugbista?
«Bello, un gesto di grande rispetto. Ricordo in Nuova Zelanda un signore che lo aveva ricevuto nel 1976 e ancora se lo portava appresso. E’ importante ricevere un riconoscimento del genere, anche per chi per anni magari lo desiderava. ».
Le di caps ne ha collezionati ormai quasi 100…
«Ne faccio 99, se Dio vuole. Nel momento in cui arriverò a 100 esulterò».
Ma è vero che questo sarà il suo ultimo anno in nazionale?
«Prima della penultima o dell’ultima partita saprete la mia decisione definitiva».
Non è che la rivedremo alle Olimpiadi del 2016, nel rugby a sette o nella vela?
«Ne parliamo dopo l’ultima partita?».
Preoccupato per il futuro della nazionale quando tutti i veterani avranno smesso?
«Ci sono giovani bravi. Non sono preoccupato per il futuro, lavorano bene e hanno grandi ambizioni. Però ci vuole anche fortuna»
Lei è in nazionale dal ’99. Come è cambiato il rugby in Italia da allora?
«E’ cresciuto a macchia d’olio. L’unica cosa che mi sarebbe piaciuto vedere in più è una franchigia di alto livello al centro-sud, gestita dalla federazione. Forse un giorno ci arriveremo».
Per quest’anno si parla di un test-match a Napoli.
«Non si tratta soltanto di portare la nazionale al sud, ma di creare una squadra e dare la chance ai giovani e a i tecnici del sud di seguirla, di giocare a rugby a casa loro. Bisogna coprire tutta l’Italia, come fa la Francia, che sta portando il rugby anche in stadi che sembravano dedicati solo al calcio».
Lo Cicero, per finire: cosa replica a chi sostiene che l’Italia perde troppo e non merita di restare nel Sei Nazioni?
«Chi dice questo lo fa soltanto perché siamo scomodi. Perché teme che possiamo batterli: gli roderebbe molto. Ma non credo che siano tanti ormai quelli che ci vogliono fuori dal torneo».
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