Se parliamo di rugby, gli inglesi sono ciò che noi italiani potremmo, ma non vogliamo essere. I francesi ciò che vorremmo, ma non possiamo essere. Belli, raffinati e un filo dannati; violenti e teneri, selvaggi e sentimentali. Romantici, rivoluzionari, ma cartesiani (e un po’ laportiani, vabbe’).
Biondi fuori e neri dentro, con i capelli al vento e la morale di pietra di Jean-Pierre Rives, secondo la lezione di Gareth Edwards: “Caloroso, amichevole, cordiale fuori dal campo, Rives. Ma io non mi sono mai fatto fregare dal suo fascino, perché una volta che inizia la partita il suo sorriso diventa di ghiaccio. E lui pur di vincere sarebbe capace di fare tutto: persino di giocare a rugby”.
Ci hanno nutrito, i francesi: allenatori, tecniche, filosofie. Sfamato – Grenoble, oh cara – quasi mai. I francesi sanno codificare l’improvvisazione (“i francesi sono prevedibilmente imprevedibili”, sostiene Andrew Mehrtens), gli italiani al massimo improvvisano le regole. Noi il rugby lo abbiamo succhiato da loro, adattandolo ai nostri limiti. Loro, prima, lo avevano imparato dagli inglesi, trasformandolo in una cosa che non c’era prima e a cui i british sono stati costretti a dare un nome che trasuda invidia: french flair. Una corsa del fiato che il ritmo in tre-quarti se lo porta fin dentro i cognomi, basta pronunciarli: Cam-bera-bero, Les-car-boura, Bas-ta-reaud. Tre passaggi negli intervalli (musicali) e si schiaccia in meta.
Un talento in odore di supponenza: “Nella mia carriera sono sempre stato uno che se ne fregava”, ha detto una volta Andre Boniface. “Se segnavo tre mete, e la squadra ne prendeva due, poco male. L’importante era farne una in più degli altri. Se perdi senza aver rischiato nulla, è triste. Se perdi dopo aver provato tutto, non fa niente”. Altro che “primo, non prenderle”.
Serve ripassare la storia, spesso, per capire il gesto che svela un popolo. Nel 1872 la Francia era piegata dalla guerra. Battuta a oriente da Bismark, la borghesia dell’Esagono fece l’occhiolino a occidente, all’Inghilterra. Urgevano lezioni vigorose, sulla strada della ricostruzione. I giovani sudditi della regina Vittoria erano sportivi? Très bien, lo sarebbero diventati anche i francesi della seconda Repubblica.
La palla ovale, “il più intellettuale di tutti gli sport” (George Pastre, Histoire générale du rugby), sbarca a Le Havre, nel grande nord affacciato al mare, si distende su quelle spiagge sconfinate, soffia nelle foreste immense, si inurba a Parigi nei Licei. Il Condorcet, che genera il Racing, il Saint-Louis, che produce lo Stade Francais, entrambi benedetti da Pierre de Coubertin, il barone olimpico già passato in visita al college di Rugby e facile agli aforismi, ai motti, alle frasi più tondeggianti che ovali: “il giovane che gioca a rugby è meglio preparato degli altri alle partite della vita”.
Presto però il nuovo sport dalla capitale emigra, quasi in fuga da quella jeunesse dorée, un po’ (molto) fighetta, e inizia a fecondare il Sud-ovest, il Midi, i Pirenei, a correre su un doppio binario. “Ovalia”, ha scritto Denis Tillinac, “rovescia la morale balzacchiana: è in provincia che i Rastignac cercano il loro successo”. Il Sud-Ouest è abitato da anglosassoni che a Pau, Bayonne, Agen, Bergerac si sono reinventati vignaioli, albergatori, piccoli imprenditori, e hanno ri-fondato i loro “clubs” sportivi. Il Midi , scrive Tillinac, “che non ha mai digerito la crociata (contro gli albigesi, ndr) di Simon de Montfort e sogna l’autonomia sin dai tempi di Richelieu, mischia al suo rugby un anelito di ribellione antiparigina di cui il Racing è il bersaglio principale. La nascita dei primi club occitani è contemporanea alla rivolta dei vignaioli di Marcelllin Albert e dello spirito regionalista di Napoléon Peyrat”. E probabilmente non troppo lontana, nello spirito, dall’insulto (“borghesi di merda”) sibilato tanti anni dopo da Bernard Laporte ai parigini che fischivano impietosi Michalak.
Allez les petits: è Asterix che cerca la meta, contro una Roma che ora si chiama Parigi, la ville lumière dove tutto è solo moda, come si rammaricava Stendhal. E’ il rugby delle piccole città, dei villaggi, il rugby giocato nei campi, in libertà. “Il gusto della festa, delle canzoni, delle sfide fra uomini ancorato in queste regioni”, ha scritto Jean-Yves Dhermain, “che trova il suo prolungamento ideale nel rugby; la naturale attitudine allo sport di popolazioni di agricoltori, di taglialegna e di pastori, gli uni che possiedono la forza, gli altri la velocità, e si completano a vicenda alla perfezione. Una miscela simile a quella che si trova presso i minatori del Galles o del nord dell’Inghilterra che proprio in quegli anni iniziano a dare filo da torcere ai club universitari”.
Uno spirito che contribuisce anche a fare dello sport un ascensore sociale, uno strumento di integrazione che si riflette nelle vicende di giocatori come Serge Blanco o Abdel Benazzi, e nell’albero genealogico di alcune delle grandi famiglie rugbistiche francesi: i polacchi Skrela, i georgiani Yachvili, gli spagnoli Herrero. E gli italiani, di origine friulana, Spanghero, “un nome che fa onore alla Francia”, come disse una volta il Presidente Georges Pompidou, e che oggi significa aziende alimentari, di noleggio auto e farmaceutiche.
Nella “douce France” di Trenet ogni paese ha la sua squadra, i suoi luoghi sacri, i suoi riti e i suoi emblemi, i suoi sapori ovali. E’ il rugby-cassoulette, che viene dopo il rugby d’importazione e prima del rugby-champagne e del rugby-paillettes – quello di oggi, del ritorno a Parigi – dei Guazzini e dei Lorenzetti. Un rugby fatto di mille toponimi: Bordeaux, certo,o Tolone; ma anche “rugby di granito a Tulle e Aurignac – ecco di nuovo Tillinac… – di basalto a Montferrand, rugby di grandi spazi a Brive, già affacciata all’Aquitania”. E poi Saint-Vincent-de-Tyrosse, Lombez-Samatan, Lavelanet, Fumel, Saint-Paul-les-Sax, Quillan, Bocau, Beaumont-de-Lomagne…
Un rugby che, come ha scritto una volta Auden a proposito della poesia, per essere grande deve essere “come certi formaggi delle valli: locali, ma apprezzati anche all’estero”. E infatti l’Inghilterra, la Nuova Zelanda, il Sud Africa e il mondo iniziarono presto ad apprezzarlo. Soprattutto gli inglesi, che da quel tipo di gioco erano separati da uno spazio ideale molto più largo e profondo della Manica, e ne sentivano fortissimo il profumo “proibito”. “A priori, ci sarebbe un solo gioco”, ha spiegato il sociologo e pedagogo Olivier Maulini. “Ma nella realtà esso si adatta diversamente a ciascun Paese. A Oxford e a Cambridge, il rigore dei college: le loro regole, i loro codici, i loro schemi tattici; sul campo come in classe, si diventa gentleman applicando delle istruzioni. Nel Sud-Ouest francese, il fervore dei villaggi: l’entusiasmo e le astuzie di una gioiosa reinvenzione. Il rugby dei campi è un rugby volteggiante. Da una parte, il rugby di scuola, che forma e conforma una élite di giovani gentlemen; dall’altra la scuola del rugby, momento di ricreazione al margine dell’insegnamento”.
Gli italiani riescono ad essere puerilmente crudeli, i francesi sanno organizzare, distillare professionalmente anche la ferocia: le rispettive, e quanto diverse, vicende coloniali stanno lì a dimostrarlo. Il rugby che in Francia era nato snob, orripilato dal contatto fisico e parente della vecchia “barrette”, un antico touch-rugby, nei primi decenni del Novecento era diventato anche molto rude, violento, quasi teppistico, oltre che “mercenario”, tanto da costare ai francesi l’esclusione dal Cinque Nazioni, – nel quale erano faticosamente entrati nel 1910 – dal 1931 al dopoguerra. A rimetterli sulla mappa negli anni ’50 sono stati Laurent Mias, Docteur Pack, e Jean Prat, Mister Rugby – due avanti, guarda caso, che avevano capito che la fantasia ha bisogno di disciplina per fiorire; che anche nel rugby occorre, cartesianamente, disporre di res cogitans per colonizzare la verdeggiante res extensa srotolata fra le due porte.
Violenza e grazia, esprit de geometrie ed esprit de finesse. Il french flair si è defitivamente aggiunto al french kiss, al french touch (e alle french fries) come grande stereotipo nazionale proprio negli anni del secondo dopoguerra, non in una data precisa ma grazie anche all’influenza, allo slancio di alcuni club come l’Aviron Bayonnais. Nel 1911 era stato un gallese, Owen Rowe, a traslocare dalle valleys a Bayonne un rugby fatto di agilità e passaggi veloci, millimetrici. A inizio anni ’50 fu Jean Douger, talento svezzato nel rugby a XIII a firmare lo slogan: “il passaggio è un’offerta”. A sottoscriverlo furono le nazionali bleus che per un decennio abbondante timbrarono il Sei Nazioni; ad esempio quella che nel ’68 colse il primo Grande Slam, o Gran Chelem, come dicono loro: quella di Jo Maso, dei fratelli Camberabero, del faunesco, sgusciante, mercuriale Jean Gachassin, tre-quarti tuttofare e tascabile (1 e 62 per 62 chili a dirlo oggi fa tenerezza) della Francia che nel ’67 a Tolone – con all’estremo Pierre Villepreux – prima ci umiliò 60-13, poi ci declassò decidendo che in futuro ci avrebbe affrontato solo con selezioni di seconda scelta. Solo un caso, che il soprannome di Gachassin – oggi presidente della federtennis francese, ma ancora capace di festeggiare alla vecchia maniera con gli amici di un tempo alla Ferrandaise di Parigi – fosse “Peter Pan”? E che un suo libro si intitoli “Le rugby est une fête”, il rugby è una festa?
Per gli inglesi passare la palla è una (a volte) inevitabile necessità, per gli italiani sempre un azzardo. Per i francesi è una promessa di felicità, e continua ad esserlo ancora oggi, dopo la rivoluzione di Laporte, nel mezzo della un po’ confusa era-Lievremont. Guai a dimenticare la spietatezza contundente di un Chabal o di un Dusautoir, la quantità di moto di Rougerie e di Jauzion, ma attenti a Morgan Parra, l’Asterix di oggi, il “piccolo” che sa riannodare il filo con la tradizione dei Berbizier, dei Fouroux, dei Galthié, dei Gachassin. Con lo spirito di Jean-Louis Bèrot, il “demi-melée” della Francia del Cinque Nazioni ’72 che prima del match con gli inglesi urlò “attacchiamoli all’uscita degli spogliatoi!”, o con quello della squadra dei Mondiali del ’99 che per battere gli All Blacks usò, come illustrò ai tempi una magica vignetta de L’Equipe, “la creatività contro la Creatina”. Perché, giurava Napoleone – e ogni francese con un ovale in mano, in fondo, si sente un Napoleone – “L’impossibile non è francese”.
Anche se oggi il rugby sembra davvero pronto a trasformarsi, secondo la formula del vecchio Pierre Albaladejo, nel “ jeu qui interdit le je”, in un gioco che bandisce l’io, la fantasia, l’improvvisazione, la Francia rimane sempre una squadra “double face”, come è in fondo è giusto che sia per il distillato sportivo di una nazione nordica e mediterranea insieme, sdraiata fra l’Atlantico e Marsiglia, e che dal rugby si fa rappresentare in maniera ancora più completa, profonda, viscerale che dal calcio. I francesi, al peggio, sono simili a noi. “Come gli italiani, ma sempre di cattivo umore”, secondo una vecchia battuta. Al meglio sanno trasformarsi in certe partiture di Ravel, dinamiche e piene di nuances, capaci di scintillare leggère qua e là fino a riunire tutta l’orchestra in un fortissimo di chiarezza immensa. Noi tiriamo a fregarli, i cugini, e spesso ci riusciamo o ci illudiamo di farlo. Ma loro, almeno nel rugby, riescono ancora a incantarci. Con un gusto per il rischio che noi riusciamo ad estrarci dal profondo solo quando rimaniamo con le spalle al muro, ma che per loro, i galletti del Continente, è questione di scelta e di vocazione, non di necessità. A chi gli chiedeva ragione di tre passaggi dietro la schiena tentati in un paio di partite della nazionale, Jean-Baptiste Elissalde, mediano di mischia di Tolosa e della Nazionale, figlio di un mediano di mischia, nipote di due mediani di mischia, un giorno ha risposto: “Sono sicuramente i miei cromosomi che mi consigliano di giocare di destrezza nel momento del pericolo”.
Ecco perché i francesi ci stanno sulle scatole, ma sotto sotto, almeno nel rugby, vorremmo essere come loro.
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