Da “Centre Court”, la storia controcorrente di Bobby Riggs
“Mi ricordo di quando ero davvero piccolo, e non facevo che pregare i miei fratelli di portarmi con loro alla partita di Pacific League a Los Angeles. Loro se ne vennero fuori con l’idea di farmi correre contro il ragazzino che viveva accanto a noi. Se avessi vinto, sarei andato con loro. Se avessi perso, mi avrebbero spedito a casa con una pacca sul sedere. Io, potete scommetterci, corsi più forte che potevo”. La vita di Robert Latimore Riggs, detto Bobby, a pensarci bene, è stata tutta una lunga, disperata scommessa. Giocata contro il mondo che lo ha sempre giudicato di volta in volta troppo basso, troppo antipatico, troppo poco elegante o un filo troppo furbo per diventare davvero Qualcuno. Se l’abbia vinta o persa, be’, questo giudicatelo voi.
I Riggs erano tanti, sei fratelli e una sorella, figli del reverendo Gideon Riggs e stipati dentro la loro casetta un po’ sgarrupata di Lincoln Heighs, un sobborgo di Los Angeles abitato dalla middle-class. Bobby, nato nel 1918, era il cucciolo di famiglia, amato e strapazzato, farcito di buoni propositi cristiani ma portato naturalmente a credere, nell’America della grande depressione, che la vita fosse soprattutto una sfida. I suoi fratelli, tutti sport-junkies, fanatici di qualsiasi sport, a quattro anni lo aizzavano contro i ragazzini del vicinato in corse e gare, lui assorbiva tutto con una mente rapida, opportunistica, lucidamente, ferocemente calcolatrice. Un giocatore nato. Durante gli anni di scuola imparò in fretta a fare il pieno di nichelini con il poker o il Black Jack improvvisati sulle panche dei parchi pubblici: smazzava, azzardava, vinceva. E svuotava salvadanai.
Al tennis arrivò dal ping-pong. “I mie fratelli mi incoraggiavano, come del resto facevano per qualsiasi mia inclinazione sportiva. Si divertivano a vedermi lottare e sudare per battere avversari più vecchi e più esperti di me. Mi ripetevano: non c’è problema se perdi con uno migliore di te, ma guai se ti arrendi”. Una scuola di vita ad alta pressione psicologica, un tirocinio dell’ansietà. I primi colpi li diede per copiare suo fratello, con una racchetta chiesta in prestito e a piedi nudi, su un playground di periferia. Per caso quel giorno passava di lì Esther Bartosh, ordinaria di Anatomia all’University of Southern California, oltre terza miglior tennista di LA, e capì all’istante che in quel mucchietto di nervi giaceva un tesoretto. “Se tuo fratello ne ha voglia”, disse a John, “mi farebbe piacere insegnargli a giocare a tennis”.Eccome, se ne aveva voglia, Bobby. Però gli mancava un accessorio. “Il giorno dopo accompagnai mio fratello ai campi di Sycamore Grove, a Los Angeles, e mentre ero lì vidi un vecchio insegnante che lanciava una vecchia racchetta al suo cane, per farsela riportare. Il cane si impegnava molto, ma una volta arrivai prima io. L’insegnante si divertì molto quando gli riportai la racchetta e gli spiegai che stavo imparando a giocare a tennis, ma non avevo una racchetta. “Potrei usare questa meglio del cane, se me la regala”, gli dissi. Lui scoppiò a ridere e rispose che potevo tenerla. Povero cane, la prese male. Ma io avevo la mia prima racchetta”.
L’attrezzo, smangiucchiato com’era, durò tre settimane (e il cane ebbe la sua silenziosa rivincita), ma Bobby non si perse d’animo e se ne procurò un’altra scambiandola con un sacchetto di biglie, che puntualmente rivinse lo stesso pomeriggio. La Bartosh lo svezzò con pazienza, intuendo che il piccolo Bobby non sarebbe mai diventato uno spaccamontagne ma che possedeva altre qualità meno appariscenti, forse, ma altrettanto efficienti.“Ricordati che la cosa importante è piazzare bene la palla, Bobby”, gli ripeteva. “Le partite di tennis si vincono sugli errori. Lascia che siano gli altri a tirare forte, a buttare la palla in rete, a sbagliare. Non conta quanto forte picchi la palla, ma dove la sai mettere”. Mica facile. “Quando ero sotto pressione tendevo a dimenticarmi i suoi insegnamenti”, ricorda Riggs. “Non avevo ancora dei colpi robusti, né belli da vedere, per lo più correvo come un cervo impaurito o come un levriero drogato per tutto il campo. Ho sempre creduto che nel tennis non devi mai mollare un punto, per quanto sembri disperato da vincere”.
La Southern California Tennis Association non la pensava così. Il tennista ideale dell’epoca, in quel lembo fortunato di mondo, era più alto, più forte, più elegante da vedere. Un tipo alla Gene Mako o alla Jon Hunt, alla Donald Budge o alla Jack Kramer. “Riggs è troppo basso”, tentavano di spiegare alla Bartosh i dirigenti indispettiti da quel ragazzino che, contro ogni previsione, aveva iniziato a vincere tutti i tornei giovanili a cui partecipava. “Non ha dei buoni colpi, non colpisce forte abbastanza. Non è alto a sufficienza per servire bene e non ha l’aria di chi crescerà a sufficienza per cavarsela a rete”. Tutto quello che Bobby poteva fare, come ha scritto nella sua autobiografia genialmente intitolata “Tennis is my Racket”, “era battere gente che quei parrucconi non pensavano avrei potuto battere”. Perennemente sfavorito, perennemente vincente: una contraddizione che sprintava in calzoncini da tennis su è giù per la California. La federazione gli dichiarò guerra – e sarebbe durata per sempre – anche perché non gradiva la fama di scommettitore che lo accompagnava ovunque come un’aureola fuligginosa. Era l’epoca del dilettantismo ipocrita, gli “amateurs” teoricamente potevano permettersi di incassare al massimo dei rimborsi spese. Attorno a Riggs e al suo amicone Wayne Sabin invece frullava un tipo losco, Jack Del Valle, che arrivava al Los Angeles Tennis Club su una Cadillac cromata e si piazzava in tribuna, sussurrando quote. Bobby vinceva, e incassava. Con Sabin iniziò a girare l’America su richiesta dei direttori dei tornei, diventando amico di milionari come Edmund C. Lynch – sì, quello della Merril-Lynch -, che lo ammiravano e gli procuravano lavori ben retribuiti ma non concessi a un dilettante. La federazione fece di tutto per metergli i bastoni tra le gambe, rifiutandogli trasferte a Wimbledon e convocazioni in Davis che da numero tre o quattro d’America avrebbe strameritato. Lo misero anche sotto inchiesta per via di rimborsi spese a loro giudizio troppo alti. “Se ci ripenso, mi viene da ridere”, scuoteva la testa Riggs. “Prima ti davano dei soldi, sbranandosi fra di loro per il privilegio di dartene di più, poi ti sgridavano dicendo che non avresti dovuto accettarli. Non ho mai smesso di meravigliarmi dell’ipocrisia dei dirigenti del tennis”.
Nel 1938 Dun Budge, che per tutta la vita sarebbe stato il suo modello e la sua croce, il suo rivale e la sua vittima – aveva chiuso il primo Grande Slam della storia. L’anno dopo finalmente anche Riggs, che a forza di risultati sonanti aveva vinto il braccio di ferro con la Federazione ed era stato convocato in Coppa Davis, contibuendo a vincerla, approdò in Europa. Eleanor Tennant, la leggendaria maestra che stava sbozzando Alice Marble e avrebbe poi fatto lo stesso con Maureen Connolly, gli aveva dato un’aggiustatina al gioco. Lui, maniacale, ossessivo negli allenamenti e ossessionato dall’idea di smentire i suoi detrattori che non lo credevano all’altezza di Budge, si era applicato per diventare il miglior Riggs possibile. E ci era riuscito. “Bobby è uno che studia il tennis nello stesso senso in cui Einstein studia la matematica”, diceva il suo amico Jack Kramer. “Conosce tutto quello che c’è da conoscere sulla tattica del gioco”. Copriva il campo alla perfezione, conosceva i difetti degli avversari e li sfruttava, con un controllo di palla assoluto. Alternava lungolinea profondissimi e malevoli crossettini, lobbava e smorzava, teneva da fondo e saliva a rete improvviso e letale come una bruma. Gran seconda di servizio (“all’altezza di quella di von Cramm, Gonzalez e Newcombe”, sempre secondo Kramer”) e fosforo infinito. “Ci sono stati giocatori più grandi di Bobby Riggs”, sosteneva il coach di Frankie Kovacs, George Hudson. “Ma più intelligenti, mai”.
Al Roland Garros perse in finale contro Don McNeil; nel big-match del Queen’s fu umiliato dal barone von Cramm che però, in sospetto di omosessualità, venne escluso dai Championships per colpa della scoraggiante, esecrabile pruderie del Committee. Alla vigilia del torneo Bobby fece una capatina dai bookmakers con il suo amico John Oliff. “A quanto lo date Riggs vincitore in singolare?”, si informò. “Tre a uno”. “E in doppio? “. “Sei a uno”. Il fiuto da scommettitore nato gli consigliò a quel punto di azzardare una puntata su tutti i tre titoli, compreso il misto, e Bobby allungò 500 dollari sotto la faccia stupefatta, quasi disgustata dell’allibratore. Lo stipendio medio di un anno in America a quei tempi era di circa 1.200 dollari, una casa ne costava 1.000. “Di sbruffoni in vita mia ne ho conosciuti”, disse Oliff, “ma tu li batti tutti. Nessuno ha mai vinto i tre titoli di Wimbledon al primo colpo”. Neppure il grande Budge ci era riuscito. Ma Riggs ce la fece. Acceso dall’adrenalina di quella scommessa folle, e facilitato dall’assenza di von Cramm, battè Elwood in singolare, insieme a lui vinse il doppio maschile e il misto con Alice Marble.
Strinse la mano alla Regina Mary, bevve lo champagne e andò a ritirare dal bookmakers una vincita di 108.000 dollari, qualcosa come un milione e mezzo di dollari di oggi. La Seconda Guerra Mondiale era alle porte, l’Europa stava per finire nelle grinfie dei Nazi, bisognava riprendere la via di casa. Bobby depositò il capitale in una banca della City, per evitare guai con fisco e con la federazione yankee, e già sulla nave iniziò a fare un tifo disperato contro Hitler. “Avevo le mie ragioni, 108.000 per la precisione. Durante la battaglia d’Inghilterra sudai freddo da lontano, ma nessuno sperò come me che la RAF impedisse l’invasione tedesca in Inghilterra”.
A Londra tornò per ritirare il malloppo, che nel frattempo gi interessi avevano ingrossato, ma Wimbledon non giocò mai più. A settembre, mentre la Wehrmacht invadeva la Polonia, Rigg si prese anche i National Championships a Forest Hills. In finale si liberò di John Hunt, il pin-up biondo che sarebbe caduto due anni dopo sotto le armi durante un volo addestrativo, in finale stroncò Welby Van Horn. “Fu un’emozione meravigliosa”, scrisse poi ricordando quel giorno. “Giocavo a tennis da quando avevo 11 anni. Per anni avevo sognato di vincere i Campionati nazionali. Ed eccomi lì, a 21 anni, campione di Wimbledon e degli Stati Uniti. Mi sentii davvero arrivato”. In dicembre sposò Kay Fischer, una bella ragazza bonda che dicendogli “sì” sposò anche il tennis. Il suo secondo giorno da Signora Riggs, Kay lo passò morendo di freddo sulle tribune dell’Armory Park di Chicago, dove Bobby restò in campo per quindici set spalmati su tre match: c’era una nuova scommessa da vincere, ed era quella di guadagnarsi un contratto da professionista.
Bobby the hustler ricominciò a girare l’America puntando su se stesso e quasi sempre vincendo, ma nel ’40 a Forest Hills gli andò buca. Finì meglio l’anno seguente, quando rivinse i “Nationals” battendo Frankie Kovacs, l’unico avversario che per anni era riuscito a snervarlo in campo. Passò finalmente fra i “pro” dove ritrovò Kovacs, Budge e il vecchio ma inossidabile Tilden. Nel ’43 fu chiamato alle armi ma fino al ‘45 non sparò un colpo. Di base a Peral Harbour, dove fece comunella con i campioni del baseball, si divertiva a vincere match il cui prize-money erano Cadillac usate e a palleggiare con il vice presidente degli Stati Uniti, Henry Wallace, che in cambio chiudeva occhio sulle licenze premio. In una serie di esibizioni fra Ersercito e Marina, a Guam, ritrovò Don Budge e lo battè cinque volte in nove match. “Se ce l’ho fatta oggi”, si disse, “posso farcela sempre”.
Tornato civile iniziò a frequentare Hollywood, spillando soldi per scommessa a erroll Flynn, Mervin LeRoy o Jack Warner – sì, quello della Warner Bros.Nel 1946 il destino gli mise per l’ennesima volta davanti il fantasma di Budge, il Migliore, la grande leggenda americana. Lo aveva già battuto, ma il match che contava per tutti era la finale dei Campionati Professionistici degli Stati Uniti. “Kay fece un fioretto di non bere più Coca Cola per un anno e si incaricò della mia alimentazione”, ricorda Riggs. “Mi dava da mangiare bistecca tre volte al giorno, e da bere due tuorli d’uovo. Non andammo più a ballare o alle feste. Non guardavo più i match di tennis sui lati del campo, ma solo da dietro la linea di fondo, per essere sicuro di non storcermi gli occhi. E per la stessa ragione non andammo al cinema per mesi”. Budge era di tre anni più anziano, con una spalla malmessa dopo una brutta cadita, ma era ancora in grado di battere chiunque. Riggs lo demolì 6-3 6-1 6-1, picchiando sulle ferite del campione. “La peggior sconfitta della carriera di Budge”, commentò Bobby gongolante. Il torneo gli fruttò 3.100 dollari di premi fra singolo e doppio, ma non fu quella la ricompensa più grande. “Per la prima volta in carriera tutti mi considerarono il più forte tennista del mondo. Da dilettante, nonostante le vittorie a Wimbledon e a Forest Hills c’era sempre la grande ombra di Donald Budge che mi seguiva. ‘Sì, Riggs è bravo’, dicevano, ‘ma Budge se lo mangerebbe in un boccone’. Quella vittoria mi fece pensare che potevo finalmente dire ai capoccia del tennis dilettantistico che non mi avevano mai considerato fin da bambino: vi piaccia o no, sono il migliore”.
Ma c’era già una nuova Nemesi che la inseguiva, e si materializzò nel ’48. Era Jack Kramer, il suo vecchio amico, passato al professionismo dopo aver dominato fra i dilettanti. Riggs era il campione dei pro ma la star vera era Jack, era per lui che tutti erano disposti a pagare. Nel ’47 Budge e Riggs si erano persino dovuti giocare il diritto a incontrarlo. Alla fine di una lunga tournée inaugurata da una vittoria di Bobby davanti ad un Madison Square farcito da 15.000 spettatori nonostante New York fosse bloccata da una nevicata record, Kramer chiuse con 69 vittorie, contro le sole 20 di Riggs. Bobby continuò a giocare ancora un paio d’anni, cavandosela egregiamente, poi passò dall’altra parte. Diventò un organizzatore non sempre fortunato ma tanto spregiudicato da azzardarsi a tagliare con rasoio le famose mutandine della curvilinea Gussy Moran, ingaggiata per rimettere in carreggiata un tour femminile partito male. “Chinati un po’ quando arrivi davanti ai fotografi, Gussie, dacci un po’ d’azione”, arrivò a suggerirle. Per diciassette anni non toccò una racchetta, Bobby. Nel 1952 sua moglie Kay gli aveva annunciato, con rassegnato amore: “Ti lascio, caro, e il motivo è che per gli ultimi quindici anni non ti ho mai visto”. Priscilla, la seconda moglie, prima di mollarlo a sua volta tentò di curare la monomai per lo sport e le scommesse spedendolo da uno psichiatra. “Dopo un paio di sedute era lì che tirava carte dentro un cappello insieme a me”, ricorda Riggs nelle sue memorie. “E il resto del tempo lo passammo sfidandoci a a gin rummy”.
Ricominciò a giocare per scommessa, ad handicap, contro tennisti della domenica di venti o trent’anni più giovani di lui. Il suo repertorio era vasto ed esilarante. Poteva girare 18 a buche a golf con lo stesso bastone, vincere un match a tennis vestito da donna e con quattro sedie sulla sua metà campo, con un ombrello o una valigia nella mano sinistra, calzando un impermeabile e delle galosce, o addirittura trascinandosi un cane al guinzaglio. “Il difficile”, commentava, “è quando il cane non è addomesticato”. Nel 1973, a cinquantacinque anni azzeccò la stangata della vita, ideando, montando, costruendo per mesi la “Battaglia dei sessi”. Prima attirò nella trappola Margaret Court, superandola facilmente, poi nel match clou all’Astrodome di Houston, visto in televisione da 30 milioni di americani, si fece stendere 6-3 6-1 6-1 da Billie Jean King, recitando la parte del vecchio campione iper-maschilista. Molti, forse tutti tranne Billie Jean, pensarono che per una volta la vecchia volpe si fosse scommesso contro. Con la King nacque in realtà una grande amicizia, solida, duratura. Una stima reciproca, fra due che per tutta la vita si erano dovuti difendere dalle paure proprie e dai pregiudizi altrui. Il giorno prima che Bobby morisse in una stanza d’ospedale della California, a 77 anni, Billie lo chiamò al telefono e lo salutò per l’ultima volta .“Ti voglio bene”. Una frase che non aveva né quota, né prezzo.
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