Ai Giochi di Londra ha fatto clamore la vicenda di Wojdan Shaherkani, la ragazzona saudita che voleva gareggiare nel judo coperta dall’hijab, il velo che nasconde i capelli e parte del volto, nonostante i regolamenti non lo permettessero. Era diventata una questione politica, diplomatica, più che sportiva. Alla fine Wojdan l’aveva spuntata, anche se poi sul tatami, spaurita e spaesata nel suo fisico molto goffo e sotto la cuffia di lycra nera, aveva resistito 82 secondi prima che Melissa Mojica la schienasse senza traccia di solidarietà femminile. Un hippon e via, Wojdan, perennemente scortata, sorvegliata, protetta dai dirigenti sauditi, è scomparsa dalla nostra vista distratta di spettatori professionisti e un po’ annoiati.
Gareggiare ai Giochi è sicuramente (sicuramente?) una conquista per le ragazze che provengono da Paesi dove la sharia, la legge islamica, è applicata con rigore integralista, ma è importante chiedersi anche che vita hanno, a che destini vanno incontro quelle ragazze una volta che escono dalla pista o dal campo di gara. Wojdan in realtà è stata, se vogliamo dirla brutalmente, moneta di scambio fra il Cio e le autorità saudite, a cui i dirigenti olimpici avevano intimato: o fate gareggiare anche le donne, o vi escludiamo dai Giochi. Molto più drammatica arriva ora la vicenda di Sihame Ayouba-Ali, 18enne nuotatrice (e pallavolista) delle Isole Comore, che dopo le Olimpiadi era scomparsa. Non era tornata a casa perché a casa, ora lo sappiamo, la attendevano le nozze obbligate con un 60enne, già sposato con altre due donne, di cui lei certo non era innamorata, ma al quale la famiglia l’aveva – sì, tocca dire così… – venduta in moglie. Probabilmente spuntando anche un buon prezzo, visto che la notorietà aveva alzato il valore della promessa sposa, ma costringendo Ayouba-Ali a una vita infame, e apparecchiandole un inferno al ritorno.
In patria, come ha rivelato Andrew Gourney, un avvocato inglese esperto in faccende di migranti, la ragazza in patria era picchiata regolarmente, costretta ad allenarsi con il velo sopra il costume. A Londra era controllata a vista, e la famiglia l’aveva già avvertita che dopo le Olimpiadi avrebbe dovuto rinunciare allo sport, perché secondo l’interpretazione rigorosa della sharia competere non è decoroso per una donna sposata. In casa, nascosta alla vista, sepppellita civilmente come terza moglie di un uomo di 40 anni più anziano di lei: questa sarebbe stata la sua medaglia.
Così aveva deciso di ribellarsi, ma da casa era arrivata la fatwa: se non rientri e se non vuoi sposarti ti uccideremo. Un cappio, altro che i cinque cerchi di Olimpia. Con la condanna speitata cuciata addosso da una mentalità tanto assurda quanto feroce Ayouba-Ali invece di chiedere asilo (non sapeva nemmeno fosse possibile) ha provato a mimetizzarsi, si è procurata un passaporto falso e ha cercato a raggiungere la Francia, ma dopo mesi è stata smascherata dalla polizia inglese e condannata. Se venisse espulsa e rimpatriata andrebbe incontro alla morte, ma è facile pensare che la Gran Bretagna, patria della libertà, le concederà un asilo, visto che anche la convenzione europea per i diritti umani lo prevede automaticamente per chi è vittima di torture e di persecuzioni.
Lo sport stavolta ha probabilmente salvato la vita di Ayouba-Ali, ma il suo caso non può che far pensare a tanti altri destini, a tante altre sofferenze che non vengono alla luce. Che fine ha fatto Wojdan, che fine faranno le tante altre Wojdan che nello sport cercano una via di uscita ad una condizione tremenda? L’importante è continuare a chiderselo, a parlarne. Evitando di coprire tutto con un velo d’indifferenza.
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