Lunedì iniziano gli Australian Open, il primo Slam della stagione, e a Melbourne già da qualche giorno sono arrivati i Bill Gates del tennis. Federer con il suo entourage allargato a gemelline e baby-sitter, Djokovic e il suo clan, Murray con Lendl e un corteo di preparatori e fisioterapisti. Un circo da “sciuri”, per fuoriclasse che ogni anno incassano cifre da legge di stabilità: Djokovic l’anno scorso ha sfiorato i 10 milioni di euro in montepremi, Federer secondo Forbes ha un portafoglio commerciale da 24 milioni di euro. Ma il giallo delle palline che rimbalzano sotto il cielo di uno degli sport più globalizzati e glamour non è sempre dorato. Anzi.
La classifica mondiale conta 1984 posti, ma tolti i primi 50, 60 giocatori gli altri faticano a raccattare sponsor seri. Tentare la carriera da professionista costa salato, farsi espellere dal Tour per mancanza di fondi è un rischio costante. Se rientri nei top 130-150 riesci a vivere di tennis, magari senza arricchirti, ma poco oltre quella soglia inizia il mondo del precariato tennistico. E in qualche caso lo spread fra superstar e “peones” scatta anche prima.
Nello stesso tabellone convivono storie, abitudini e soprattutto redditi radicalmente diversi. Le suite superlusso dei primi 10 del mondo sono un pianeta distantissimo dalle camere da condividere di chi naviga anche solo attorno alla centesima posizione. Qualche anno fa Casey Dellacqua dopo aver battuto la n.1 del mondo Amelie Mauresmo raccontò di come si lavava in camera, fra un match e l’altro, i calzini acquistati al grande magazzino. E Jerzy Janowicz, il gigante polacco rivelazione dello scorso anno, non avrebbe mai sfondato se i suoi genitori non si fossero venduti negozio e appartamento.
Per tentare di colmare il gap scalando la classifica si possono battere i piccoli tornei, futures e challenger, dove in teoria c’è meno concorrenza ma i montepremi in palio sono spesso risibili (poche centinaia di dollari a volte) o rischiare nei ricchi tornei Atp, dove si guadagna bene ma circolano pesci grossi e si rischia di infilare una batosta dietro l’altra. Una stagione un minimo ambiziosa costa fra i 25 mila e i 35 euro, non tutti possono permettersi anche solo un coach part-time. Una stagione da n.150 vale attorno ai 110, 120 mila euro. Un 20-30 per cento se va in tasse, altri 40-50 mila in viaggi, hotel, pasti. Dopo 12 mesi nel frullatore, se va bene, resta uno stipendio da impiegato di lusso, non certo da riccone, mentre un mediocre giocatore di calcio incassa facilmente 300.000 euro puliti puliti.
Se sei costretto a girare il mondo, poi, devi abbattere le spese. «Per tirare avanti mi capita spesso di dormire in aeroporto o in stazione – ha scritto John Milliman, 23enne di Brisbane n.199 del mondo (24 mila euro di vincite nel 2012) che quest’anno ha strappato un set a Murray nel torneo di casa –. E in Corea del Sud, a Daegu il cibo era così cattivo che mi sono preso un’intossicazione e sono rimasto a letto una settimana». Meno danè, più amicizia.Si fanno collette per ordinare una pizza, e può capitare che chi le consegna pretenda di farsi pagare nel bel mezzo di un match; si gioca in Uzbekistan o in Nigeria, «e ci si aiuta molto – come spiega Marco Crugnola, n.165 nel 2009 – magari dividendo la camera con degli sconosciuti che poi diventano tuoi amici».
E’ per questo che da un paio di anni è scattata una class action contro i quattro ricchissimi tornei dello Slam. «Eravamo tutti pronti a boicottare Parigi – racconta Flavio Cipolla, n. 94 Atp, uno degli italiani in tabellone a Melbourne –. Siamo noi che teniamo in piedi lo show, ma i 4 “major” distribuivano ai giocatori percentuali ridicole (7-10 %, ndr) dei loro incassi». Risultato: tutti gli Slam stanno alzando i montepremi dei primi turni e gli Australian Open, dove quest’anno chi uscirà subito intascherà quasi 21mila euro (+32 %), hanno offerto a tutti 1000 euro di contributo per il viaggio. La solidarietà, spesso, vale più di un matchpoint.
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