Una volta – era il tempo pre-tecnologico di Helenio Herrera – li chiamavamo un po’ ingenuamente “maghi”. Via via negli anni sono diventati “sciamani”, “stregoni”, “vate”, Per chi li prende poco sul serio sono “santoni”, per i più aziendalisti “motivatori”, mentre i loro estimatori preferiscono l’appellativo “maestri”, meglio se venerabili. Ma se volete farvi capire, voi chiamateli semplicemente “guru”.
Un nobile vocabolo di origine sanscrita e insieme uno dei termini più usati e soprattutto abusati del mondo in tutti i campi, soprattutto sui quelli sportivi. E fra i guru in circolazione nello sport mondiale Phil Jackson è forse il guru dei guru, il capobastone della categoria, il pastore delle star, l’eterno uomo della provvidenza specie dalle parti di Los Angeles, sponda basket.
Gli ex meravigliosi Lakers, ricostruiti quest’anno attorno a Kobe Bryant e Pau Gasol con l’innesto di due altre superstar come Dwight Howard e Steve Nash rischiano il bradissimo nervoso dopo un disastroso inizio di stagione (1 vittoria in 5 partite)? Ecco che per sostituire Mike Brown, l’ex coach di Cleveland licenziato da un’occhiataccia di Kobe Bryant durante un time-out, subito spunta fuori il nome dello “zen master”, dello Sun Tsu del parquet.
Dopo aver vinto sei anelli con i Chicago Bulls di Michael Jordan negli anni ‘90 e altri cinque campionati Nba a inizio millennio come allenatore dei Lakers, l’anno scorso Phil Jackson, il “mister” più carismatico e titolato della storia del basket, aveva detto stop. Troppa fatica allenare, troppo stress per il suo corpo dinoccolato e sofferente alla schiena sopportare ancora un’altra itinerante e massacrante stagione della Nba. Già dopo il ciclo a Chicago Jackson si era fermato per la prima volta, e anche a Los Angeles la sua epopea era stata spezzata da un anno sabbatico. «Ma le altre volte avevo abbandonato dicendomi sempre “maybe” (può darsi, ndr). Stavolta non vedo nessun “maybe”». Invece, a quanto sostengono il Los Angeles Times e la ESPN, fra i Lakers e Jackson c’è già stato un incontro, un secondo sarebbe imminente e sul piatto giace un contratto biennale pronto da firmare. Guarda caso, l’altro nome che circola per la ricca ma scottante panca di L.A. è quello di un altro grande saggio, Mike D’Antoni, il guru dei due mondi (cestistici).
Sì, perché anche se siamo ormai nel post-moderno avanzato, nell’era dello sport-business e del doping tecnologico, nel regno dei super-manager (apparentemente) capaci di pianificare qualsiasi cosa, un vero grande coach non può non essere almeno un po’ guru. Non può non possedere l’aura del sapiente, dello sciamano capace di gestire con doti esoteriche, para-filosofiche, matematiche o comunque misteriose il karma dei suoi giocatori e della sua squadra. O almeno di convincere i presidenti che quella è la sua marcia in più.
La fenomelogia del guru sportivo è ricca di fattispecie. Si va dal carisma popolare e arcaico del Trap e di Bearzot a quello isterico di Mourinho, dal fascino pragmatico e affaristico di Nick Bollettieri nel tennis a quello totalizzante di Castagnetti nel nuoto. Ci sono i sergenti di ferro come Vince Lombardi, il patriarca del football americano, o Graham Henry, l’ex allenatore degli All Blacks, e i “professori” come Vittori nell’atletica. Gli ideologi-affabulatori come Menotti e le ieratiche sfingi come Zeman o Ivan Lendl, gli scienziati e i cabalisti, gli ironici alla Liedholm e i bollenti alla Delio Rossi. Quelli che guru lo sono stati e non lo sono più (vedi Ross Brawn), quelli che non smettono di esserlo nemmeno in pensione (Peterson, Bianchini, Velasco) e quelli che non lo saranno mai (Allegri).
Phil Jackson è una sintesi della categoria, il guru perfetto. E’ nato in un luogo sperduto del Montana (Deer Lodge), figlio di un padre ministro dei Pentecostali e da una madre ex-mennonita che fino alla maggiore età gli hanno impedito di bere, fumare, andare al cinema e persino ballare, quindi già predisposto all’ascesi. E’ stato un discreto sesto uomo di Knicks e Nets, ma non un divo, e quindi educato all’analisi. A Chicago convinse l’ego e il talento sconfinato di Jordan a mettersi al servizio della squadra, iniziando a edificare il suo mito di persuasore quasi mistico. «L’anno prossimo voglio vederti tirare di meno – ebbe il coraggio di intimare a quella mano torrida di “Air” – perché così i tuoi compagni di squadra avranno più chance di realizzare il loro gioco». Jordan, ipnotizzato, disse di sì, e per i Bulls arrivò il primo “three-peat”. Del resto Jackson, buddista dichiarato e psicologo sommo, lettore di Aristotele, Williams James e Krishnamurti, seguace del pensiero pellirosse e del visionario Castaneda ha sempre predicato, a partire dal famoso “attacco a triangolo”, un approccio zen al canestro. «Ciò che rende il basket così inebriante – ha scritto – è la gioia di perdersi completamente nella danza, anche se per un solo bellissimo, trascendentale istante». Trasferitosi sulla west-coast ha completato il suo capolavoro affiancando alla sapienza tattica sedute di meditazione zazen. Ha migliorato la percentuale di tiri liberi di Shaquille O’ Neal trattandolo con dolcezza paterna e facendogli leggere – se ci credete – l’etica Nicomachea di Aristotele. Da vero maieuta non sbraita, non si agita a bordocampo, non chiama i time-out come i colleghi perché preferisce che i suoi giocatori ritrovino da soli il ritmo interiore. L’unico a farlo imbufalire davvero è stato quell’egocentrico di Bryant, ma dopo litigi furibondi fu proprio Kobe, nel 2005, a rivolerlo alla guida dei Lakers. Qualche maligno sostiene che la sua vera forza sia stata a soprattutto allenare due squadre di fenomeni, e a Detroit più per la calma zen se lo ricordano per le liti con il manager Krause. Ma di certo oggi a Lakers manca il carisma, la personalissima visione del basket di Jackson. Più unico, se volete, che guru.
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