«In quella che un gallese definirebbe una partita ideale vedrete quindici grandi maestri di scacchi lavorare insieme ma senza consultarsi, perché ciascuno di loro sa, per intuito, non solo la cosa migliore da fare, ma anche che tutti gli altri lo sanno, e perciò si sono piazzati o si stanno per piazzare al loro posto in perfetta armonia. Come può succedere? Ecco, qui mi cogliete in castagna. Io so come ciò può essere fatto, tutti noi sappiamo come va fatto, ma non saremo mai in grado di spiegarvelo».
A differenza di chi ha scritto queste parole genialmente semplici, nate da una ricetta che miscela in dosi segrete talento, tradizione, destino, abitudine, una misura di spiritualismo e un pizzico di serena, candidissima arroganza, qualche lettore quel meccanismo incantato e commovente che si chiama rugby gallese potrebbe anche azzardarsi a spiegarlo. Elencando nomi e consuetudini, spulciando vecchi archivi, scrutando fotografie e filmati, studiando schemi o consumando il replay di vecchie e nuove azioni del Torneo. Ma difficilmente, a meno di essere un gallese egli stesso, riuscirebbe a riprodurlo. Perché, come è spiegato più avanti, «gli esatti dettagli di un’azione possono, anzi, devono variare a seconda delle circostanze. Può anche darsi che per un’ala la scelta migliore sia quella di puntare dritto verso l’altra ala, senza preoccuparsi dei tre-quarti che gli stanno vicino o del mediano adiacente. Se è così, non ci sarà bisogno che nessuno glielo dica. Né il capitano né gli altri suoi compagni sentiranno la necessità di gridargli dietro. Lui, semplicemente, lo farà, perché a guidarlo è lo “spirito di squadra”, o se preferite una comunicazione telepatica».
Una trasmissione collettiva del pensiero che ha a che fare, chissà, con la magia dei druidi e gli inganni del vecchio Merlino, con la contiguità al mito o magari con la capacità tutta gallese di formare spontaneamente un coro perfettamente intonato. La gioia della polifonia e quella del gioco alla mano, in fondo, si assomigliano molto. Canon Rees, il parroco che celebrò il matrimonio di JPR Williams, grande appassionato di rugby («tanto che spesso il sabato pomeriggio preferiva guardarsi una partita in tv che pensare al sermone della domenica»), dopo essersi fatto 400 miglia per arrivare nel Derbyshire, alla vigilia della cerimonia arringò i recalcitranti compagni del London Welsh invitati da JPR: «Tutta questa gente sa che siete gallesi e si aspetta che voi cantiate. Quindi ficcatevi in quel pub, bevetevi un paio di pinte, poi entrate in Chiesa e fategliela vedere!». E’ proprio il caso di dirlo: lo spirito (santo) di squadra.
Certo, ci sono anche occasioni in cui improvvisamente il cerchio magico si spezza, i pensieri si aggrovigliano, la tensione cade. E il Galles perde. Ieri come oggi: se avete dato un’occhiata alle partite dei giovani dragoni all’ultimo Mondiale, potrete essere d’accordo. «Uno dei ragazzi, o forse due, in quelle giornate diventa come “sfuocato”, e allora l’intero meccanismo s’inceppa. Perché la sensazione che il disastro sia possibile circola in fretta. E allora tutti sentiamo che il nostro apparato telepatico inizia a funzionare in maniera discordante». Basta poco, un minimo black-out, un fuori sincrono mentale. L’attimo di follia di Sam Warburton che in Nuova Zelanda ha mandato in tilt la semifinale con la Francia è perfettamente descritto nelle righe che avete appena letto. Il libro, per chi fosse curioso di saperlo, si chiama The Modern Rugby Game and How to Play It e l’autore è Gwyn Nicholls, il “Principe dei Centri”. Uno dei quindici stregoni gallesi che nel 1905 riuscirono a fermare la imbattibile Nuova Zelanda di capitan Gallaher a Cardiff.
Dai diamanti non nasce nulla, dal carbone, in Galles, è nato molto. Allegria e disperazione, benessere e rovina. Anche, soprattutto, nel rugby.
Secondo J.B.G. Thomas la pallaovale (che allora ovale non era sempre) fu importata nel Principato a metà Ottocento da una leva giovani curati educati fra Cambridge e Oxford, oltre che dai rampolli di buona famiglia reduci da college inglesi esclusivi come Rugby e Cheltenham. Ma se il primo vagito arrivò dalla sacrestia, infanzia, adolescenza e maturità del rugby gallese sono trascorse tutte in miniera.
Fra il 1871 e il 1911 la popolazione gallese raddoppiò, passando da uno a due milioni, e un terzo dei lavoratori erano minatori. La rivoluzione industriale non aveva ancora esaurito la sua spinta propulsiva, il sud della Gran Bretagna era il maggiore esportatore mondiale di carbone, e anche picconando a decine di metri sottoterra si poteva portare a casa uno stipendio decente. Dalla Scozia, dal Galles e persino dall’Inghilterra migravano a migliaia verso le Valleys. Si lavorava in miniera, si brindava e si cantava al pub, ci si sfidava in campo. Ancora ai tempi del nonno di Gareth Edwards, Jacob, negli anni ’30, i tempi della vita sociale non conoscevano soluzioni di continuità. «Dopo un match si prese un forte raffreddore. A quell’epoca non non c’erano le docce. Giocavi, ti asciugavi un po’, e poi ti rilassavi al pub con qualche pinta. Il raffreddore si trasformò in polmonite e, pochissimo dopo quel match, Jacob Edwards era morto».
Le prime squadre nacquero a Blaneau, Gwent, Chepstow, nel Monmouthsire. A Neath, nel 1871, le cronache raccontavano di fattori imbestialiti che inseguivano forcone in mano branchi di scallywags (furfanti, bricconi) che «prendevano a calci vesciche di maiale gonfiate sui loro campi coltivati». Nell’inverno del 1873 fu fondato il Glamorgan Football Club, l’anno prima era toccato a Swansea e Llanelli. La prima club-house, per molti, fu un pub: il White Hart per Pontypridd, il Tradegar Arm’s per Rhymney, il Butcher’s per Penygraig. La palla, a quei tempi, non si passava, al massimo se ti placcavano potevi consegnarla nelle mani del compagno, e quando finiva fuori dal campo gli avanti, dodici per parte, si mettevano a testa in giù e uno spettatore (!) la infilava nel tunnel umano.
«Era una nuova società», ha scritto Gareth Williams in Fields of Praise, la storia ufficiale della “union” gallese. «Era scoppiettante ed energetica. Una società che assumeva alcol e attività sportiva in grandi quantità. Il rugby offriva la possibilità di esprimersi sia individualmente che collettivamente. Una classe lavoratrice aggressiva e sicura di sé stava creando le sue proprie istituzioni, che fossero cori, sindacati o football club. E con lei cresceva il senso di identità gallese».
Fra il 1895 e il 1900 le risse fra spettatori e fra spettatori e giocatori erano all’ordine del giorno, anche grandi club come Llanelli, Cardiff, Neath o Aberavon furono sospesi. Nel primo match internazionale vinto in trasferta, a Lansdowne Road contro gli irlandesi nel 1883, uno dei giudici di campo (il referee ancora non c’era) era Richard Mullock, il padre del tennis gallese, e due dei verdi si infuriarono a tal punto per le sue decisioni che se ne andarono letteralmente dal campo prima della fine. Intanto nel 1880 al Tenby Hotel di Swansea erano state messe le basi di quella che un anno dopo a Neath sarebbe diventata la Welsh Rugby Union. Il Galles era passato dalla fase di apprendistato – con la memorabile batosta rimediata nel primo match ufficiale con l’Inghilterra, tredici mete incassate nel 1881 e la rivincita negata dai bianchi “per non infierire”… – a quella di preparazione. In attesa della prima Golden Era del rugby gallese, propiziata da una rivoluzione tecnica e da un grande personaggio.
Nel 1884 per la prima volta i gallesi decisero di schierarsi con quattro tre-quarti invece dei tre tradizionali. Una mossa rivoluzionaria, offensivista, che ben presto tutte le altre squadre nazionali decisero di copiare. L’uomo in più scippato agli avanti consentiva una nuova filosofia di gioco basata, come ha scritto H.G. Gwynn, «sul gioco aperto e su una combinazione scientifica». Si trattava, secondo l’ex-mediano di quegli anni, di convincere avanti e mediani a lavorare a favore del “quartetto” dei backs, di tenere bassi e veloci i passaggi indirizzandoli all’uomo già in movimento, e di schierare i tre-quarti «a non più di sette yards di distanza l’uno dall’altro e ben in profondità». Un circolo virtuoso che non si sarebbe mai chiuso, peraltro, senza la crescita di una nuova leva di avanti più robusti e cinici, “Rhondda style”, come furono definiti dal nome di una delle Valleys capace di produrre marcantoni duri come l’acciaio dei lori picconi. L’uomo giusto per trasformare in mete sonanti la teoria però giocava da tre-quarti e si chiamava Arthur Gould, una delle prime superstar del rugby. Alto, bello, bruno, baffuto e carismatico, l’«Omar Sharif del suo tempo», come lo ha definito Dai Smith. Lo chiamavano Monkey, scimmia, perché da piccolo era un portento nello scalare gli alberi, ma era il ritratto dello sportsman vittoriano, e correva le 100 yarde in 10 secondi e 2 decimi. Nel 1890 solo partecipando a gare di corsa mise insieme 1.000 sterline, poi accettò un contratto nei Caraibi per costruire ponti. Il sindaco di Newport gli allungò un assegno da 50 ghinee e un anello d’oro, lui promise che se avesse fatto fortuna sarebbe tornato per giocare ancora con il Galles. E fu di parola. Nel 1893 si trasformò definitivamente in eroe nazionale, piazzando due mete agli inglesi. Nel ’96 aveva ormai giocato più match, segnato più mete e drop di chiunque altro e la WRU decise di premiarlo. Con una colletta furono raccolte più di 500 sterline per comprargli una casa a Newport, ma i parrucconi dell’International Board si indignarono, sbraitando che accettare soldi in cambio di sport significava essere – orrore! – dei loschi professionisti. La WRU tenne duro, e consegnò una bella villa a Gould. Per due anni il Galles non giocò nessun match internazionale, ma alla fine l’ebbe vinta: riconquistò il suo posto nell’élite internazionale senza aver perso il diritto a ricompensare i propri giocatori senza far loro perdere lo status di dilettanti. Un successo non da poco, per una nazione in cui situazione economica e successi rugbistici sono (quasi) sempre andati a braccetto.
Gould si ritirò alla fine del secolo, ma il Galles era ormai pronto per la sua prima, grande stagione. Fra il 1900 e il 1911 “the men in scarlet” si trasformarono in una vera superpotenza ovale. Sette Tornei vinti, con il primo Grand Slam ufficiale proprio nel 1911. In quegli anni benedetti il Galles giocò 43 partite, ne vinse 35 (pareggiandone una), segnò 534 punti subendone appena 228, con una percentuale di vittorie dell’82,5 per cento. In Europa solo la Scozia riuscì a impensierirli, e persino gli Originals neozelandesi di capitan Gallaher che nel Tour del 1905 demolirono l’orgoglio british, dovettero inchinarsi alla superiorità dei dragoni. Accadde all’Arms Park di Cardiff il 16 di dicembre, nel leggendario match vinto 3-0 dal Galles con una meta di Teddy Morgan – celebrata con una danza sui tavoli della sala stampa dal grande Gould – e che oggi tutti ricordano per la meta “fantasma” del centro kiwi Bob Deans. Davanti a 47.000 persone per la prima volta i proto-All Blacks eseguirono l’haka sul suolo gallese, e il pubblico rispose con Wlad fy Nhadau, Land of my Fathers, che da allora divenne l’inno del rugby in maglia rossa. «Fu quella vittoria a incollare il rugby sulla bandiera gallese», ha scritto Gareth Williams.
Dietro la gloria di quelle imprese però era in agguato il naufragio di un’epoca, non solo nel rugby. La Grande Guerra mise fine alla stagione dorata del Galles, che fra anni ’20 e ’30 sprofondò nella depressione economica e in quella sportiva. Dopo il crac finanziario mondiale del ’29 il tasso di disoccupazione nella Rhondda Valley arrivò al 90 per cento, e a soffrirne fu anche lo sport. Il Paese aveva perso fiducia in se stesso, i migliori talenti appena potevano passavano al rugby a XIII, quello dei professionisti, e con loro anche il pubblico disertava. Fu quello il momento in cui al rugby gallese vennero in soccorso i signorini delle Public Schools, e il primo segnale di ripresa fu dato ancora una volta da un match contro gli All Blacks, vinto dal Galles 13-12 dopo 15 anni di umiliazioni. «Fu la dimostrazione che la squadra poteva essere fatta di lavoratori e di studenti», ha scritto Gareth Williams. «I tre-quarti erano virtualmente tutti studenti di Oxford e Cambridge, mentre gli avanti venivano dalla working class. Conquistarono una vittoria di un punto in un periodo in cui infuriava il conflitto di classe, la disoccupazione era di massa e regnava la povertà. Il Galles era un Paese che cercava sicurezze, il rugby diede alla gente l’opportunità di una svolta sociale. Un processo che si sarebbe realizzato a pieno fra gli anni ’50 e ’60, con la seconda Golden Age del rugby gallese».
Un nuovo tempo delle vacche grasse, inaugurato dalla triplice corona e dal Grande Slam conquistato nel 1950 e continuato sino alla fine del decennio e oltre – otto Tornei vinti fra il ’50 e il ’65 – quando un nuovo rivale, la Francia, si affacciò dall’altra parte della Manica. Il boom economico del secondo dopoguerra stava però per partorire forse il più grande Galles mai visto, quello che fra la fine degli anni ’60 e tutti i ’70 avrebbe mostrato miracoli al mondo.
Era la Gran Bretagna dei Beatles e di Mary Quant, dei Pink Floyd e di George Best; sarebbe diventata quella di John Dawes, Barry John, Gareth Edwards, JPR Williams, Phil Bennett, Gerald Davies e altri autentici sciamani ovali. Di nuovo un Galles prodotto dalle Valleys, e guidato dalla coppia di mediani probabilmente più forte di sempre.
William John aveva lavorato per 28 anni in miniera a Tumble, suo fratello Lloyd era stato ucciso dalla silicosi quando Barry aveva 12 anni. Il futuro King John crebbe a Cefneithin, lo stesso villaggio di Carwyn James, l’allenatore che nel ’71 avrebbe guidato una edizione dei Lions farcita di maghi gallesi nel vittorioso Tour australe contro gli All Blacks. James intuì al volo le qualità di Giovannino, passò pomeriggi con lui a riprovare passaggi sul pitch del villaggio, un campo di cavoli che iniziava in fondo al giardino dei John. «Quando guardate una partita non badate solo alla palla – consigliava Carwyn – ma osservate anche cosa fanno gli uomini».
Barry sviluppò un timing impressionante, la capacità di anticipare tempi ed eventi che gli consentiva di leggere e perforare le difese avversarie, di punirle con il suo piede vellutatissimo. Raccontano che un suo avversario, dopo averlo visto aprire la porta dello spogliatoio al termine di una partita si sia lasciato scappare una battuta: «Ma allora sei umano: credevo passassi anche attraverso i muri».
Secondo James, «Barry possedeva una calma interiore, una freddezza, un distacco, un genio e una nonchalance che risultavano devastanti». Tutte qualità che Gareth Edwards, il più grande numero 9 del Novecento, destinato a formare insieme a Barry la cerniera pensante di quel Galles immenso, imparò a conoscere fin dal loro primo incontro. Anche Edwards proveniva da un villaggio di minatori, Gwaun-cae-Gurwen, ma ad un trail organizzato dalla WRU al Trinity College di Carmarthen si presentò vestito di tutto punto, con una elegantissima tuta del Cardiff College. «Il mio mediano di mischia invece indossava una vecchia t-shirt, pantaloncini e scarpe da ginnastica che sul terreno scivoloso di un campo da rugby sarebbero state utili quanto un paio di stivali bucati», ricorda Edwards nella sua autobiografia. «Ero nervoso, e borbottai: “magari non avrò il miglior passaggio del mondo, ma sono sicuro di poter tirare fuori una palla e passartela da qualsiasi posto. Come la vuoi?”. E lì arrivarono le sue immortali parole: “Gar, tu buttamela e basta, ok? Io la prenderò». Se ci pensate bene, una forma di telepatia indotta.
A innescare un decennio di meraviglie non furono però solo le mani fatate di Edwards e le giocate soprannaturali di John, ma anche la decisione della WRU di ristrutturare i suoi quadri tecnici, di rinnovare preparazione ed allenamenti (e Carwyn James fece parte del nuovo trio di coach incaricati su base regionale). Risultato: fra il 1969 e il ’79 quel Galles vinse otto Cinque Nazioni su dieci (quello del ’72 fu annullato), chiudendo tre volte il Grande Slam e altre due triplici corone. Gareth quell’epoca la visse tutta, collezionando alla fine 53 caps, un record, e trasformandosi nel Pelè del rugby. Barry invece decise di ritirarsi a 27 anni, quando si accorse di aver raggiunto un livello di popolarità imbarazzante per un ragazzo delle valleys. Per Bill McLaren in campo “King John” esibiva una «accettabile forma di arroganza», ma quando, invitato all’inaugurazione della filiale di una banca, vide una ragazza intimorita e nervosa fargli un courtsey, l’inchino riservato ai nobili, rimase shoccato: «E’ troppo, pensai. Con il rugby ho chiuso».
A fianco di Edwards arrivò allora Phil Bennett, un altro predestinato, l’uomo che nel ’77 prima di un match contro l’odiata Inghilterra pronunciò il famoso discorso: «Guardate cosa hanno fatto questi ‘bastardi’ al nostro Paese. Hanno preso il nostro carbone, la nostra acqua, il nostro acciaio. Hanno comprato le nostre case, giusto per passarci qualche giorno di vacanza. E cosa ci hanno dato in cambio? Niente. Noi siamo stati sfruttati, saccheggiati, dominati, puniti dagli Inglesi. Ed è contro questa gente che giochiamo oggi pomeriggio».
In realtà Bennett, senza saperlo, stava parlando anche del futuro. E’ stata infatti di nuovo una inglese, la lady di ferro Margaret Thatcher, la causa indiretta dell’ennesimo tracollo gallese. A metà degli anni ’80, nel mezzo di una nuova gravissima crisi economica, il governo “tory” da lei capeggiato schiacciò la protesta dei minatori resistendo agli scioperi ad oltranza. I Dragoni fecero in tempo a raggiungere le semifinali al primo Mondiale, quello dell’87, ma nonostante il fiorire di nuovi talenti – Neil Jenkins su tutti – e qualche successo isolato, per tornare a dare un’impronta gallese al rugby hanno dovuto aspettare il nuovo Millennio e il ripartire dell’economia – questa volta su nuove basi, con il terziario al posto delle miniere che ormai compaiono solo sulle vecchie foto appese nei pub. La costruzione del Millennium Stadium e la conquista di due Grand Slam, nel 2005 e nel 2008, sono nati dalla voglia di guardare avanti, ma anche dalla capacità di Mike Ruddock e di Warren Gatland di sfruttare al meglio il giacimento umano che sta alla base del rugby gallese, la sua vena inesauribile di talenti, per costruire squadre che prima ancora che un gioco possiedono uno spirito. Un’anima collettiva fatta di quindici “pezzi” che – nelle giornate giuste – sulla scacchiera del campo sanno sempre in che casella muoversi.
Complimenti è un piacere leggere il suo scritto
Grazie!