Fine di gennaio, inizio di febbraio. E’ la settimana bislunga, il weekend del rugby e del football americano, il padre e il figlio ovale, che celebrano i loro riti più sacri. La liturgia del rugby inizia con la prima giornata del Sei Nazioni, quella del Football si conclude con l’orgia televisiva del SuperBowl che brucia più di 2 milioni e mezzo di dollari ogni 30 secondi di spot. Gran Bretagna e America, due nazioni separate dalla stessa lingua. E dalla stessa palla. “Lo sferoide prolassato”, come i cronisti Usa di fine Ottocento definivano quell’oggetto di cuoio spesso importato dall’Europa, incrocio fra un pallone da football attuale (più piccolo e leggero di quello da rugby) e uno da basket. Una delle poche cose comuni, ormai, fra due credi, due filosofie, due opposte immagini del mondo. Le battaglie campali di Napoleone e Lord Wellington contro il mito della conquista metro metro della Frontiera. Il rugby delle elite britanniche, delle public school, passatempo degli ufficiali durante la Guerra di Crimea. Sport da cafoni giocato da signori, rovescio del calcio “sport da signori giocato da cafoni”. Il Football, per gli snob, è la terza variante: sport da cafoni giocato da cafoni. L’educazione alla vita contro l’educazione alla violenza. Foraggiato dai borghesi Athletic Club, che ai primi del ‘900 negli Stati Uniti costituivano la prima tappa della scalata sociale (e affaristica) – per gli snob yankee il football della NFL oggi è l’oppio dei neri. Il gangsta-sport in cui proliferano, e a volte muionio con un proiettile in corpo, campioni bordeline. Il rugby è lo sport che i neri, nel Sud Africa campione del mondo, faticano ancora a giocare.
Il fooball è stato il primo sport a diventare professionista, il rugby l’ultimo a ripudiare il (falso) dilettantismo. “Rugby is now open”, dichiarò nell’agosto 1985 il gallese Vernon Pugh. Harvard nel 1889 si era ritirata dal campionato universitario della Foot-Ball League, indignata perché giocatori di Princeton, Yale e della stessa Harvard avevano accettato “soldi per participare ad alcune partite. Una battaglia già persa. Sette anni prima, a Pittsburgh, William “Pudge” Heffelfinger, il migliore giocatore di football della nazione, era diventato il primo professionista della storia. Il Pittsburgh Athletic Club lo aveva pagato per battere L’Allegheny Athletic Association: 500 dollari, lo stipendio annuale di un insegnante. Uno scandalo etico destinato a diventare legge di mercato. Se il baseball è nato dal cricket, i due più importanti reami ovali sono nati entrambi dall’anarchia che nel primo Ottocento si chiamava “football”. Squadre anche di 50 persone che scalciavano e correvano dietro un feticcio rotondo. Il primo a prendere il pallone in mano fu – se ci credete – William Webb Ellis, studente inglese della Rugby School, nel 1823, quando i colonialisti avevano già esportato le zuffe Oltreoceano, in America e in Canada. A Princeton negli anni venti si tentava qualcosa di confuso, il primo club di Football Americano della storia potrebbe essere stato L’Oneida Football club di Boston, nel 1861, o forse il Montreal Football Club, nel 1868, gli storici dubitano. Grazie ad Harvard nel 1876 furono codificate le prime regole, leggermente diverse da quelle del rugby. Il padre del gioco si chiama invece Walter Camp. Allenatore di Yale, all’inzio degli anni ’80 dell’Ottocento fissò a 11 il numero di giocatori per squadra, ridusse la lunghezza del campo, introdusse la linea di scrimmage e i tre (ora quattro) down. Regole imparentate a quelle del rugby a 13, (League) l’eresia professionistica che a inizio del Novecento si staccò dalla canonica versione a 15 (Union), e nel quale il gioco è più aperto, le mischie una formalità, e dopo sei placcaggi subiti bisogna lasciare la palla agli avversari. La differenza più grande, il “forward pass”, il passaggio “in avanti”, uno per down, che nel rugby è peccato, arrivò solo molto più tardi. Fu introdotto nel 1906, insieme ad altre regole, per tentare di arginare la violenza del gioco che, dopo la morte in campo di Harold Moore, halfback dell’Union College, aveva turbato persino Theodore Roosvelt. Il Presidente in persona chiese alle Tre Grandi – Princeton, Yale e Harvard – “di fare qualcosa per limitare la durezza del gioco”. Si studiarono anche nuovi elemetti più rigidi – quelli vecchi assomigliavano ai caschetti che si usano oggi del rugby – protezioni per le spalle, per il bacino, per le gambe. Senza grandi risultati: 33 morti nel 1908. Anzi, il miglioramento continuo delle protezioni, illusione di invulnerabilità, non ha fatto che aumentare nei decenni la violenza degli scontri, rendendoli molto più crudi, devastanti di quelli del rugby. Dove le imbottiture sono ridotte al minimo ma il fair-play, almeno fino a ieri, funzionava da gommapiuma. Proteggendo la tradizione, ma anche attutendo i guadagni. Dopo la guerra, grazie allo sviluppo delle televisione, alla nascita del SuperBowl e del “monday night” il football – spettacolare, feroce, compatto, istantaneo – ha spiccato il volo. Data del decollo, il “più grande match mai giocato”, la finale NFL del 28 dicembre 1958 allo Yankee Stadium. Baltimore Colts contro New York Giants, 30 milioni di spettatori davanti alla tv. Il rugby ha dovuto aspettare gli anni ’90, l’avvento di Murdock, i suoi 500 catodici milioni di dollari scommessi per la nascita del Super 12, del Tri-Nations. Un rugby con meno anima, più muscoli e più business, e alle prese da qualche anno, proprio come il football, con una escalation di infortuni (94 per squadra, di media annuale, nella premiership inglese). Ha partorito i Mondiali, studiato nuove regole ammorbidendo la mischia; altre ne sta preparando (purtroppo), per rendere il gioco meno impostato sulla mischia, meno deciso dai calci. Il piede, appunto. Si torna alle origini comuni. Jonny Wilkinson, il miglior “kicker” del mondo, il papa del rugby, ha lasciato intendere qualche tempo fa che, seguendo Beckham, potrebbe anche decidere di finire la carriera oltre Atlantico, un elemetto calato al posto della mitra sulla zazzera bionda. Un viaggio pastorale fra credenti di parrocchie comunque ormai troppo lontane.
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